VIA GIANCOLA, 42
di Giovanni
Carullo
La facciata del palazzo di Via Giancola 42 e’ stata appena restaurata. Ridipinta
con toni carichi, di giallo e di rosso. Giallo ocra
e rosso pompeiano. Tinte che forse hanno
un altro nome . Sono tante le sfumature del giallo e
quelle del rosso. Basta entrare in una rivendita di vernici ed osservare i campioncini plastificati, quelli bucherellati ed uniti da
una catenella argentata. Per il rosso ce ne sono decine, altrettanti per il
giallo e poi si vira verso le tinte fredde, prima i verdi, poi gli azzurri.
Infine i bianchi. Anche le foto in bianco e nero, se
ci pensi, hanno mille sfumature. In bianco e nero e’ la foto delle nozze dei
miei nonni. Si sono sposati nel 1931. A quei tempi bastavano il bianco e nero a
dar colore alla felicità. Fu scattata nel giardino dietro casa, l’unica foto di
mio nonno che conosco prima di quella gli era stata
fatta con la divisa da soldato.
Mio
nonno ha sempre avuto paura di accendere i fornelli della cucina a gas. Ricordo che ogni mattina si faceva accendere da mia madre il fuoco
piccolo e ci arrostiva sopra una spiga tenera di granturco. Di quelle
che coltivava lui, coi chicchi bianchi e teneri. Tutti
diversi. Non erano tempi da Ogm.
In
viaggio di nozze lui e mia nonna erano stati a Napoli
e, poi, di
passaggio “nel” Vesuvio. Da piccolo non riuscivo a capire come fossero potuti
scendere fin dentro al vulcano. Pensavo ci fossero
fuoco e lava. Mia nonna mi raccontava che le
si erano bucate le calze.
Mi sarebbe
piaciuto che arrivassero a festeggiare le nozze d’oro. Ma tre anni prima
dell’anniversario mia nonna se ne andò. Ricordo che
stavo dando ripetizioni di inglese a mio fratello
quando sentii le urla di mia zia.
Mia
nonna aveva lo stesso odore della cucchiaia di legno con cui mescolava il sugo prima di andare a messa. Nel sugo c’erano sempre
delle braciole profumate che da noi sono
fette di carne arrotolate, fissate con gli stuzzicadenti e farcite di odori ed
erbe varie.
Dopo
essersi sposata, mia nonna passava le
giornate in casa, usciva a far la spesa
e aspettava il ritorno del marito a cui raccontare le malefatte dei
figlioli. Mio nonno sfilava la cintura e solo quel gesto tacitava moglie e
figli.
Tutti i mariti di Bellizzi
uscivano di casa la mattina presto per andare a lavorare. Tutte le case di Bellizzi erano e sono a due piani. Dietro le porte a vetro
che di sera si serrano ancora con ante di legno c’e’ il soggiorno ed in fondo
la cucina. Le scale portano alle stanze da letto. Adesso
c’e’ anche il bagno, sia sopra che a piano terra.
All’inizio
pero’ il bagno
stava sempre fuori e faceva un corpo a se’.
Tutti
i mariti delle donne di Bellizzi erano operai. Operai
edili. Bellizzi era un paese di operai
ma mio nonno non faceva l’operaio. Lui faceva
impresa e la mattina aspettava a casa i suoi operai per andare tutti insieme sui cantieri. Una volta fecero
dei lavori anche a Maiori, in costiera amalfitana, ne parlava come di un posto
lontanissimo.
Alberto,
il capocantiere, abitava nello stesso palazzo di mio nonno, in un monolocale al secondo piano, in
corrispondenza della stanza dove dormivano i miei genitori, e al centro del
letto lui e la moglie custodivano una
bambola enorme vestita di pizzo con un occhio sempre chiuso. Alberto non
aveva figli, ma aveva mille nipoti. Mio
nonno e mia nonna gli avevano fatto da testimoni di
nozze dopo che aveva conosciuto Antonietta, quando era stato a fare dei lavori
a Sant’Angelo dei Lombardi. Alberto e Antonietta per
andare in bagno dovevano uscire dalla porta di casa e
salire in soffitto. Cinque gradini di legno.
Il
palazzo di Via Giancola 42 non appartiene piu’ alla mia famiglia. A differenza di tutti gli
altri e’ un
palazzo a due piani ed ogni piano ha due appartamenti. Lo aveva costruito il
padre di mio nonno per i suoi quattro figli nel 1931. C’era ancora la data in
cima al portone, sotto alle iniziali del padre di mio
nonno : MT.
Mio
nonno si chiamava Tommaso. Anche suo padre si chiamava
Tommaso.
Quando
hanno ridipinto la facciata del palazzo hanno coperto
la data e le iniziali del nome del padre di mio nonno.
Quando
hanno ridipinto la facciata del palazzo di fronte, al lato della piazza, hanno
cancellato la scritta piu’ enigmatica della mia infanzia :
“ Sii lodato o capo improvviso
dell’Italia acefala, Tu che restituisci Roma alla predestinata Italia”
Mi han raccontato che per Bellizzi passo’ il Duce e poi
finanche il Re, prima per la
proclamazione dell’Impero nel ’36 e poi di passaggio da Brindisi verso
Salerno.
Quando
guardavo il palazzo di mio nonno da Piazza Napoli ( gia’
Piazza Roma, come e’ scritto sulla lapide di marmo) si
leggevano accanto al balcone dal lato della chiesa DUX e REX.
Oggi
sembrano nomi di cani.
Io so
solo che in tempo di guerra per mio nonno non c’era lavoro. Insieme a suo cugino partirono per la Germania e
insieme fecero anche il viaggio di ritorno : ma il cugino viaggio’
sigillato in una cassa di legno.
Un
incidente sul lavoro.
Il
pranzo di nozze fu consumato nella stanza piu’ grande dell’appartamento di mio nonno. Quella che poi divento’ la stanza dei miei genitori. Sopra c’era la stanza
di Alberto. In quella stanza cosi’ grande , tanto grande
che ci stavano un balcone e una finestra, per un periodo ci avevano tenuto le
lezioni delle elementari. Mio nonno l’aveva fittata e mia zia Costantina praticamente
andava a scuola in casa.
Mia
zia Costantina fu la prima figlia dei miei nonni. Ma prima di lei
avevano avuto due figli maschi.
Veramente
non si chiamava solo Costantina, cosi’ come
avrebbe voluto secondo tradizione la mamma di mio nonno, ma Maria Costantina perche’ era nata il dodici settembre, il giorno della festa
della Madonna ed a Bellizzi era il giorno della Madonna di Costantinopoli, titolare
della Chiesa madre, giorno di
processione.
Ma la
suocera di mia nonna se la prese a male avendo creduto che la nuora avesse voluto anteporre al suo il nome della sorella Maria e so che
per molto tempo, per questo serio
motivo, non si parlarono. Anche se i
miei nonni la chiamarono Costantina e tuttora per noi nipoti rimane Zia
Costantina. ( Soltanto la famiglia del marito la chiama Maria.)
Mia
nonna ebbe un ictus cerebrale una mattina di novembre mentre si allacciava il
reggiseno. Io feci solo caso al gran trambusto, scese il dottore del piano di
sopra, che aveva comprato l’appartamento del fratello di mio nonno e ne aveva fittato una stanza ad
Alberto ed Antonietta.
Ogni
pomeriggio Antonietta lo passava con mia nonna a piegare le lenzuola, a pulire
i fagiolini, a rammendare i calzini. Io stavo seduto al tavolo e contavo i punti
delle figurine Mira Lanza profumate di detersivo che,
se ci penso, ancora sento sulle dita.
Mi
sono sempre sentito responsabile dell’ictus di mia nonna :
il giorno prima l’avevo fatta innervosire mentre lavorava all’uncinetto
facendole il verso man mano che lei contava i dritti ed i rovesci.
E la
sera prima non avevo detto le preghiere : avevo
stretto un patto scellerato col Padreterno, qualora mi fossi addormentato senza
le preghiere avrebbe dovuto far succedere qualcosa alla mia famiglia. Mi
svegliai alle 5 di mattina e, con mille sensi di colpa, cercai di rimediare, un veloce paternostro e cinque avemarie, ma la punizione arrivo’ implacabile un paio
di ore dopo.
Da
allora mia nonna non cammino’ e non parlo’, ogni tanto, se
stava meglio, camminava spingendo una sedia di legno blu e se veniva la
fisioterapista stringeva a fatica tra le mani una palla da tennis.
L’ultimo
ricordo del volto di mia nonna e’ in una cassetta in superotto
del compleanno di mia cugina: sembra che sorrida ma e’ solo una smorfia dovuta
alla paralisi dei muscoli facciali. Quando mia nonna mori’,
Peppino, che aveva comprato l’appartamento di un altro dei fratelli di mio
nonno, sbagliò e anziché fare le
condoglianze a mio nonno gli disse “Auguri” . Eravamo nel periodo di Pasqua.
Mio
nonno e’ sopravvissuto 17 anni a mia nonna. Ora son
seppelliti chi sopra chi sotto, dietro le lapidi di
marmo bianco con le loro foto. Mia nonna nella foto del cimitero ha proprio il
vestito che piu’ di ogni
altro mi ricorda l’odore di sugo sulla cucchiaia di legno. Le foto sono in bianco e nero, il colore dei morti, il colore dei
ricordi, in fondo il colore della vita.
A fianco del nome di mio nonno non c’e’ la data di
nascita, non c’e’ la data della morte. Sono ospiti della tomba di Zio
Annibale. E Zio Annibale non voleva che la gente che lo
andasse a trovare dopo morto risalisse alla sua eta’.
Mio nonno, post mortem, si e’ dovuto adeguare allo stile familiare.
L’ultima in basso e’ Zia Elisa, la moglie di Zio Annibale, il fratello di mia
nonna. Zia Elisa fu la prima a morire. Ricordo che mi faceva
le siringhe e aveva un pesciolino rosso al centro del tavolo della cucina.
Ogni sera gli dava una mollica di pane.
Lei,
sulla lapide, le date di nascita e di
morte le mostra senza pudore, cosi’
pure mia nonna.
Nascondere
l’età di morte forse era un vezzo tutto maschile :
quando dettai il testo del manifesto a quelli delle pompe funebri, mia Zia
Costantina mi impose, ricordando la volontà del padre, di cancellare l’eta’,
era troppo elevata e la gente,
leggendola, avrebbe potuto commentare che di piu’ non
poteva pretendere. Lui almeno pensava cosi’.
Dopo
Zia Costantina era nata mia madre e per darle come nome Rosalba era intervenuto
lo zio dottore : i miei nonni oscillavano tra Agnese e Adriana, ma i
vezzeggiativi dialettali li precipitavano nell’indecisione. (
‘Gnesuccia, ‘Ndrianella..)
Poi era
stata la volta di mio Zio Tommaso. Tommaso anche lui, come il padre e come suo nonno.
Anche quella volta mia nonna aveva litigato
con la suocera.
La
suocera pretendeva che lo chiamasse Emilio. Lei aveva avuto due figli di nome
Emilio ma erano entrambi morti con la Spagnola.
Poi,
oltre a mio nonno, aveva avuto Zio Gennaro, Zio Giovanni e Zio Ricuccio.
Le femmine, Zia Meluccia e Zia
Natalia, non le ho mai conosciute perche’ se ne
andarono a vivere in America. Quando arrivo’
la notizia della morte di Zia Meluccia per una
settimana in casa non si accese il televisore. Poi, di nascosto cominciai
ad accenderlo togliendo il volume. Man mano che i giorni passavano
e il lutto si elaborava, il volume del televisore tornava al livello normale.
Per
ogni figlio maschio il padre di mio nonno aveva previsto un appartamento nel
palazzo di Via Giancola. Il palazzo e’ a forma di U, si dice che i palazzi a forma di U, cosi’ come quelli a forma di T siano piu’
deboli quando arriva un terremoto. Ma il palazzo di Via Giancola
42 a forma di U e’ sopravvissuto ai terremoti.
Dopo
il terremoto dell’80 mio nonno giro’
per tutta la città cercando i palazzi
che aveva costruito, lui insieme alla
sua squadra, Alberto, Aniello e Capossela, e scoprì
che nessuno di loro era danneggiato. Mio
nonno non si e’ mai arricchito, aveva paura di accendere i fornelli ma anche di chiedere una lira in piu’
di quanto gli spettasse per i suoi lavori scrupolosi.
Forse non era paura.
Maggiore
confidenza aveva con la cucina economica, quella a legna, che c’era anche il
vano per l’acqua calda e per le mele cotte. Si sedeva al caldo e cantava una
nenia. Ha passato i 17 anni senza mia nonna vicino al fuoco d’inverno e in
campagna d’estate.
Se scoppiava un temporale, quelli estivi, improvvisi e
rumorosi bisognava correre n’copp o vosc a recuperarlo con la macchina.
Quando
mia nonna era viva lui le leggeva gli articoli del Roma
o del Mattino, che compravamo dal barbiere sotto casa, lei preparava la cena, io facevo finta di
studiare sul tavolo di marmo della cucina.
La
casa era fatta in modo che si passava di stanza in
stanza. Il salone dove avevano festeggiato il matrimonio, quello dove mia Zia
Costantina aveva fatto le scuole elementari, era la nostra stanza da letto per
tutto il tempo che abbiamo abitato in quel palazzo.
Ai
piedi del letto dei miei c’era il lettino di mio fratello, al lato quello di
mia sorella ; io, da quando si era sposato mio Zio Tommaso mi ero trasferito nella sua
stanza. Al suo matrimonio, però, avevo
pianto dal dispiacere che andava via di
casa.
Per
arrivare nella stanza da letto bisognava passare dentro a
quella dei miei nonni, ma mio padre e mia madre andavano a letto presto, che’ la mattina si alzavano all’alba, mentre i miei nonni si addormentavano sul
tavolo guardando la televisione. Alberto e Antonietta si addormentavano
insieme a loro e tutti quanti si svegliavano all’unisono se provavo a cambiar canale, quando
lampeggiava il triangolino. C’erano solo il primo e il secondo. Anche loro in bianco e nero.
Anche
mio padre qualche volta guardava la televisione coi
gomiti poggiati sul mobile della stanza da pranzo, poi toglieva la fede e dava
la corda all’orologio.
Prima
di mia Zia Costantina mia nonna e mio nonno avevano avuto un figlio maschio. E l’avevano chiamato Emilio. Mio nonno usciva ogni mattina
per andare sui cantieri e lasciava alla nonna i soldi per la spesa. Ogni giorno
un contadino bussava alla porta e portava un uovo fresco per il bambino. Adesso
non ricordo se anche quel giorno mio nonno fosse al lavoro e mia nonna stesse
da sola in casa quando bussarono alla porta per l’uovo fresco.
A
quei tempi anche lo spazzino saliva fino a su a
prender l’immondizia e persino quando io ero piccolo Teresa veniva fino a casa a portarci il
latte fresco. Ogni volta le davamo il bottiglione vuoto in cambio che ci
restituiva pieno l’indomani.
Mia
nonna ando’ alla porta ed Emilio si arrampico’ sui fornelli della cucina economica, non ho mai
capito bene se si rovesciò addosso la pentola di acqua
bollente o se fini’ lui stesso nella caldaia. Emilio
aveva tre anni e mori’ per le ustioni.
Mia
nonna di notte sognava la Madonna che le parlava. In quel periodo mia nonna
urlava nel sonno se dormiva e se non dormiva piangeva tutta la notte. Mio nonno che si doveva alzare presto per lavoro una notte minaccio’ di buttarla dal balcone se non si fosse ripresa.
La
Madonna le aveva detto, ne era proprio sicura, che il custode del cimitero le avrebbe
riportato Emilio e lei ogni notte lo
aspettava. Il custode del cimitero di Bellizzi faceva
anche lo spazzino ed una mattina che mia nonna lo sentì spazzare sotto casa, si affacciò al
balcone tutta felice con la camicia da notte bianca e la “scolla” in fronte, convinta
che le avesse riportato Emilio.
Sono
piccolissime le terrazze dei balconi del palazzo di
Via Giancola. Una volta non mi accorsi che mi avevano
rinchiuso le imposte alle spalle, mentre ero fuori ad accendere una stellina di
Natale, e attraversai il vetro col
ginocchio. La ferita ci mise mesi per guarire. Portavo i calzoni corti e in
bella mostra il ginocchio medicato di garze, cerotto e
tintura di iodio. Da quel balcone mia nonna mi aiutava ad attraversare la
strada per andare a scuola.
Dopo
un anno e mezzo dalla morte del primo figlio mia nonna rimase di nuovo incinta e al secondo figlio ancora fu messo nome
Emilio.
Mori’ di broncopolmonite.
Mia
nonna aveva un fratello medico, l’unico medico del paese, ma neanche lui riusci’ a salvare Emilio.
Per
tutti i 17 anni che mio nonno Tommaso ha vissuto senza mia nonna
ha tenuto sul comò la foto di Emilio, morto nella culla. In bianco e nero, il
colore dei morti. Il colore dei ricordi, in fondo il colore
della vita.
Mio
nonno e’ stato l’ultimo tra i suoi fratelli a vendere l’appartamento nel palazzo
di Via Giancola. Tutti gli altri lo avevano fatto
prima.
Nell’appartamento
di Zio Gennaro s’era messa di casa Zia Lucia, io non l’ho mai conosciuta, mia
madre mi racconta che quand’era bambina e non c’era la
televisione, passavano le sere attorno al braciere a sentire le sue storie.
Zia
Lucia disse a mia nonna, quando le nacque il terzo figlio maschio, che se lo
avesse chiamato Emilio le sarebbe morto pure quello.
Avrebbe
dovuto mettergli nome Tommaso, come il marito e come il suocero.
Anche quella volta mia nonna litigo’
con la suocera.