Via Giancola, 42

(Le scale, Antonietta, i pomodori)

di Giovanni Carullo

 

    Se i palazzi avessero un’anima, allora quell’anima avrebbe le sembianze sinuose e  geometriche delle scale e dei suoi gradini, lisci  e  spigolosi  oppure consunti dal calpestio,  arrotondati dal tempo.

Le  scale,   che disegnano un reticolo di relazioni, di passi pesanti o di saltelli leggeri,  i primi in salita, gli altri in discesa,  di attese al campanello. Riconosci i le persone dal modo tutto personale di scendere o salire i gradini, ogni passo costituisce il tratto di una firma inconfondibile, una sorta di impronta digitale acustica che rendeva  e rende  ogni individuo unico e riconoscibile. Persino nella memoria.

Stelio, per esempio,  aveva un modo tutto suo di scendere le scale del palazzo, il  ritmo di un doppio passo,  confesso che per anni ho cercato di imitarlo, un saltello sui due passi, piu’ cadenzato dal lato di uno dei due piedi, forse il sinistro, ta-tam ta-tam ta-tam

Se anche le scale avessero un’anima, allora l’anima delle scale del palazzo di Via Giancola, 42, avrebbe  anche un nome : Antonietta ( Comm’Antonetta).

Ho rincontrato Stelio sul sagrato della Chiesa Madre di Bellizzi. Quella intitolata a Santa Maria di Costantinopoli. Ogni volta che rientro in quella Chiesa, ma ancora  prima di entrare ( la facciata, il rosone, i nidi delle rondini… ),  mi metto ad esplorare ogni angolo, dal pavimento, alle pareti, sino al soffitto, alle colonnine del pulpito di marmo,  al filo della campanella di uscita della messa, alle scritte in cima a ciascuna delle figure che adornano l’abside, Spes, Fides, et  Caritas; mi annoto  mentalmente tutto quello che e’ cambiato rispetto a quando passavo li’ dentro  le mie sere da bambino, collezionando presenze sul registro da chierichetto ( la domenica potevi collezionarne due e addirittura tre se c’era un matrimonio alla messa di mezzogiorno), che poi Don Nicola premiava il primo in graduatoria con un pellegrinaggio gratuito.

Stavolta, per esempio,  mi sono accorto che Gesù’ e Sant’Antonio sono stati scambiati di posto. Sono sicuro che Gesù’ fosse proprio sopra l’altare di sinistra, metterei la mano sul fuoco di averlo lasciato li’, di fronte alla Madonna Addolorata, vestita del nero piu’ cupo che ricordo  dei tempi dell’infanzia. Ora il suo posto resta invece occupato da Sant’Antonio, mentre Gesù’ si trova  di fronte  alle panche, sul lato sinistro del transetto. E’ una statua con uno sguardo molto penetrante. Mi ha fissato per tutto il tempo del funerale. Sono sicuro che volesse chiedermi di essere rimesso al posto suo, quanto meno per ritrovare una sintonia ed una consonanza coi miei ricordi.

Ho rincontrato Stelio sul sagrato della Chiesa perché eravamo in attesa dell’arrivo del carro con il feretro di Antonietta.

 

Stelio era appena  ridisceso    dalle scale del palazzo di Via Giancola 42. Saranno decenni che non abita piu’ in quel palazzo, ha cambiato strada ed ha cambiato citta’. Dagli stessi anni, qualcuno in piu’, qualcuno in meno, nemmeno io abito piu’ in quel palazzo. 

“ Come sono silenziose le scale di quel palazzo” mi ha detto Stelio, poco dopo che ci siamo incontrati. “ Come erano diverse,  quando c’eravamo noi”

Ho ripensato a  quella frase, perché se e’ vero che l’anima di un palazzo sono le scale, se  le scale di un palazzo hanno un’anima a loro volta, e se l’anima del palazzo di Via Giancola 42 era  Antonietta, allora,  adesso che Antonietta non c’è  più  e adesso che le scale tacciono, e’ proprio giusto che sia  così,  come se tutto un tempo fosse giunto a conclusione, come  se quel silenzio segnasse  l’avvenuto  compimento di un processo che trasforma e decolora  tutto quanto, voci, odori, colori e persone e li riconsegna alla esclusiva  dimensione dei ricordi.

Quando penso alle scale di quel palazzo il primo ricordo che mi viene in mente e’  il fischio forte del postino  ( pustiere) Camillo : Si affacciava sulla prima rampa delle scale, immetteva quanta più aria potesse dai polmoni direttamente al fischietto in dotazione e poi urlava i cognomi dei condomini : “ Maffei, Urciuoli, Oricchio, Carullo….” Se ti sentivi chiamare, allora aprivi la porta e ti portavi nelle scale, per me era una festa sentire quel richiamo,  soprattutto il giorno della settimana quando sapevo di aspettarmi Topolino, o quando ero in attesa di un orologio, o di qualche aggeggino ordinato tramite le pubblicita’, sempre su Topolino.

Si mescolavano i profumi lungo quelle scale, e se tornando dalla scuola mi sorprendeva con sgomento l’odore del minestrone ( doveva essere di sicuro il mercoledi’), allora bastava fare un paio di rampe in piu’, salire da Antonietta, al secondo piano,  aspettare che l’effetto magico del profumo del suo riso al sugo    mi facesse  improvvisamente cambiare umore, e poi tornavo  a casa, la cartella in una mano, nell’altra il piatto di riso   come trofeo di caccia, da consumare tra tutti i restanti commensali di famiglia, poveracci, condannati a quell’indicibile minestrone.

Dopo pranzo Comm’Antonetta scendeva le scale per venire a dare una mano in cucina a  mia nonna. I fagiolini da “acconsare”, le zucchine da affettare, le lenzuola da piegare, i calzini da appaiare. Me la ricordo sempre in compagnia di una bottiglia di spuma rossa, di marca Arnone. Di sera, poi, ridiscendeva le stesse scale per venire ad addormentarsi davanti alla Tv, si sedevano lungo il tavolo, lei, il marito Alberto ( Comp’Abberto), mia nonna e mio nonno, e tutti insieme facevano a gara chi si addormentasse per primo.  Se io avessi desiderato  cambiare canale, va bene che ce ne fossero soltanto due, avrei dovuto  organizzare un’operazione complicata, abbassare il volume, poi cambiare il canale,  infine riportare il volume, lentamente, ad un livello accettabile. Bastava sgarrare di un poco l’operazione, bastava che solo uno dei quattro si svegliasse, e tutto il lavoro sarebbe stato inutile.

Non tutti avevano il televisore, in quegli anni, e neppure tutti avevano il telefono. C’era la signorina che lavorava in un bar del centro, per esempio, che saliva le scale del palazzo per venire a casa nostra, il cui numero aveva lasciato per essere richiamata ad una certa ora.

 Il palazzo, le scale, i gradini, il giardino dove tutti stendevano le lenzuola bianche ad asciugare. Anche nel (rectius: “sul”) giardino, si arrivava percorrendo una rampa di scale. Una palazzo-comunita’. Un palazzo di relazioni forti che si trasformavano in comparatico. La comunita’ si rafforzava. I miei nonni avevano fatto da testimoni di nozze ad Antonietta ed Alberto,  i genitori di Stelio avevano fatto da testimoni al matrimonio dei miei. Mia madre si era cresimata la sorella di Stelio e la mamma di Stelio aveva fatto da madrina a mia madre. Il padre di Stelio, infine, mi aveva fatto da padrino al battesimo. In quell’occasione pero’ se l’era ampiamente meritati, ruolo ed incarico. Era stato lui, medico, ad accorgersi che l’ostetrico che mi aveva preso alla nascita, stava sbagliando a darmi per morto. Era cosi’ corso in fretta a prendere un secondo ostetrico, insieme al quale, con diverse manovre rianimatorie, e continui passaggi da bacile d’acqua fredda a bacile d’acqua calda, alla fine era riuscito  a farmi emettere il primo vagito.

L’anima del palazzo, le scale di Via Giancola, 42, si ravvivavano come mai  in piena estate, quando si celebrava il rito delle “bottiglie”,  nel cortile interno. L’arrivo delle cassette dei pomodori, quelle migliori, col prezzo concordato tra tutti i condomini partecipanti al rito,  era preceduto dal  lavaggio delle bottiglie, dalla verifica degli strumenti riposti dall’anno precedente, la macchinetta per la salsa, i “chiccarielli”(tappi a corona), lo spago, i turaccioli di sughero, i tappi a macchinetta,   o cavoraro”, le bottiglie adatte, col vetro spesso,  quelle che avrebbero retto per tutto il tempo notturno della bollitura sopra il trespolo treppiede. Il basilico, quello profumato, di cui io abusavo, lo mettevo sul fondo delle bottiglie, poi’ a metà , infine in cima. Aiutandomi, per sistemarlo,  con il manico del cucchiaio di legno, assestando colpi al fondo della bottiglia sopra il panno piegato all’uopo sopra il tavolo di legno.

Ad ognuno si assegnava un ruolo, i bambini inserivano le fette di pomodoro crudo nelle bottiglie, mia nonna si dedicava alla bollitura dei pelati, a me piaceva   girare il manico della macchinetta della salsa, le bucce da una parte, la polpa dall’altra, poi con le bucce facevi una seconda passata, ma con quelle diventava piu’ difficile la rotazione del pomello di comando. Antonietta si dedicava alla chiusura delle bottiglie, sughero e spago, perché dei chiccarielli ( i tappi metallici) ancora non  si fidava fino in fondo. Poi c’era tutta l’operazione della sistemazione delle bottiglie nel caldaio, compito da veri esperti lasciata agli anziani di famiglia, interponendo vecchie coperte per evitare contatti tra le bottiglie. E se tutto fosse andato per il verso giusto lo avresti capito solo l’indomani mattina, lo leggevi dall’atmosfera che trovavi in cucina al risveglio, era il volto di mia nonna a consegnarmi, senza nessuna parola, l’esito riguardo al numero delle bottiglie rotte. Se erano tante, si dava la colpa al vetro, alla qualità dei pomodori, ma in casa si respiravano non meno di tre giorni di lutto.

Oggi le scale sono ancora li’. Sono  altri passi ed altre  le storie che percorrono quei gradini, diversi sono gli odori, e  sicuramente non si sentirà piu’ quell’odore di pomodoro passato,  quell’aroma di pane e mortadella che interrompeva l’impegno mattutino, i cocci di quelle bottiglie  rotte,  non ci sarà piu’ l’odore dei tini, del torceturo (torchio), del vino fermentato, dei travasi e delle damigiane impagliate. Sono odori che il tempo relega alla memoria. Probabilmente se avessimo continuato a vivere in quel palazzo, tutti quanti noi, io e la mia famiglia, la famiglia di Stelio, Comm’Antonetta e Comp’Abberto, le scale avrebbero comunque cambiato ruolo e copione, ognuno avrebbe avuto la sua televisione, ognuno avrebbe comprato le proprie bottiglie pronte al supermercato. Noi saremmo cresciuti, e comunque andati via.

Ma quella rete di relazioni forti che videro quelle scale protagoniste, durano tuttora, finche’ dura la vita e permane la memoria, continua anche dietro un feretro, scendendo le scale del cimitero,  e dopo si alimenta di racconti.

Come quelli che faccio ai miei figli, a   loro che percorrono le scale di un palazzo di citta’ a bordo di un ascensore impersonale, ignorando persino i nomi dei vicini di pianerottolo.