"Non so se sia un frutto dell’età o delle ferite che uno, ad un certo punto, si trova sulla pelle come un beluga sgraffiato ed artigliato dagli orsi polari che attendono presso i varchi della crosta di ghiaccio cui i dolci animali devono affacciarsi per respirare. Non so se sia la reazione a quell’immensa bruttura e sporcizia con cui il panorama cittadino ci sgraffia e ci artiglia lo sguardo ogni giorno e neppure se sia la rabbia che tracima spontanea dal fegato quando si passa per una qualsiasi media cittadina del centro-nord e la si trova ordinata e decorosa come Avellino non è più. Non so come mai, insomma, ma ormai vivo in simbiosi con una melanconia che mi accompagna fedele come un’ombra.

Ripercorro i passi dell’infanzia e dell’adolescenza e mi perdo nella malia di ricordi come quello del magico tetto scorrevole del cinema Umberto… Ricordo che attendevo quel momento quasi più del film che ero andata a vedere, la magia di quel tetto che in pochi minuti si ritraeva per mostrare un tappeto di stelle o il declinare della luce pomeridiana.

Era questione di pochi minuti e quel grande edificio, con tutta la gente che c’era dentro, tirava questo gigantesco respiro, si liberava del fumo (allora si fumava al cinema), dalle emozioni che la pellicola aveva suscitato nel pubblico, creava l’atmosfera complice per un corteggiamento che, un tempo, canonicamente iniziava con un invito al cinema.

Vederlo devastato, dall’incendio prima e dall’incuria poi, è doloroso quanto scorgere i segni del tempo sul proprio viso; su quelle pietre lasciate all’immondizia ed alle erbacce c’è il riflesso delle nostre vite, su quelle pietre lasciate all’incuria ed all’immondizia possiamo piangere, come se stessimo osservando una ruga, regalo di un dolore, che non sapevamo di avere.

C’è un legame tra i luoghi e le vite che li hanno abitati, tra la Dogana e la vita di ognuno di noi; questa lunga agonia, che speriamo si possa impedire, è però servita a farci prendere coscienza di questo legame, ad unire le generazioni in una battaglia comune, a farci ritrovare l’orgoglio dell’appartenenza ad un centro storico che, ormai, è quasi soltanto un dato documentale.

La Dogana ha gridato il suo dolore con la dolcezza straziante di una megattera, ha sussurrato la sua pena ad ogni passante distratto che la scansava con l’imbarazzo che si riserva alle donne concupite per capriccio e poi dimenticate, ha cantato la sua canzone di malinconia autunnale anche agli uccelli che ancora continuavano a fare il nido sotto le sue grondaie, ha riso persino con i topi e i tubi innocenti che l’invadevano come un nugolo di parenti impiccioni, ha mostrato a tutti il suo fascino da nobildonna.

Chi ha conservato in fondo al cuore la ferita di questa nostalgia, che altro non è che la permanenza della memoria di ciò che si è amato, chi ha ancora sulla pelle quel fresco che penetrava dal tetto scorrevole durante il grande “respiro” dell’intervallo della proiezione, semplicemente è qui a portare la propria energia, il desiderio del bello, la volontà di riavere questo pezzo unico della memoria e del cuore di nuovo restituito alla dignità che la storia le ha meritato di diritto.

 

Antonella Russoniello

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