Da: "Viaggio al centro della Collina della TERRA" (su Irpinia e Irpini)

                                                                                                                 di pasquale matarazzo

 

Se si pensa ai numerosi cunicoli che si diramano sotto il centro antico di Avellino e i vari collegamenti con edifici e strutture murarie, quali quelle del castello, sembra quasi di emulare il celebre romanzo di Jules Verne, ma qui non c’è un vulcano e la Collina della Terra è un centro tutto da ricostruire nella speranza di restituire il cuore pulsante della città ai cittadini che non si riconoscono più in un luogo che fu scelto dalle antiche genti per rinascere dalle ceneri dell’Impero Romano d’Occidente.

Prima che il sole primaverile riscaldasse, definitivamente, la conca avellinese, in un grigio pomeriggio del mese di marzo, sono tornato a visitare i luoghi della Collina della Terra.

Nell’attraversare, via Seminario, da vicolo Benedettini, mi sono portato verso la Torre dell’Orologio, che si erge maestosa su tutta la collina, simbolo della città, progettata da Cosimo Fanzago artista Bergamasco, che su commessa dei Caracciolo realizzò altre opere simbolo della memoria collettiva: la fontana di Bellerofonte (detta dei tre cannuoli), la Dogana, il monumento a Carlo II D’Asburgo.

Proprio sul lato prospiciente la Torre dell’Orologio si può ammirare un pezzo delle mura longobarde e un beccatello: mensola in pietra a uno sbalzo che, raccordato da archetto, sosteneva l’apparato a sporgere verso l’esterno di torri e cortine, dal quale si praticava la difesa piombante, ora invaso da erbacce  così come i giardinetti sottostanti, che cingevano la collina, per questo, nel 1200 il geografo Edrisi, definì la città di Avellino “piccola come un castello” riferendosi proprio a quelle mura.

Percorrendo via Seminario, che sembra disegnata da un compasso, ho volto lo sguardo al “Uoccolo” antico accesso da piazza Duomo ai cunicoli Longobardi.

 Giunto fino a Rampa Tofara, dove il rudere di un antica chiesa Bizantina (San Nicola dei Greci) ancora resiste all’incedere del tempo, ho attraversato l’antico selciato, dove la sera, la luce di un lume avvolge il tutto in un fascino senza tempo.

 

A pochi passi l’antico castello Longobardo, in fase di restauro, non fa che regalare sorprese.

Prima è venuta alla luce un antica risorgiva che era la vita del maniero e della sua comunità e poi un leone in pietra, probabilmente di epoca Augustea, custode di pietra di una tomba importante, e altri reperti, alcuni pezzi di maiolica e un pavimento, riferibili all’era dei Caracciolo.

Una città e la vita che gli scorreva attorno,  scandita dallo scroscio del fiume Fenestrelle, dal Rio Cupo che lambiva le mura del maniero e dal rumore dei mulini che da esso traevano energia per la sopravvivenza di una intera comunità.

Risalito verso piazza Maggiore ho notato lo stato precario del palazzo De Conciliis ora casa della cultura Victor Hugo dal nome del poeta che soggiornò  nello splendido edificio del XVIII secolo, insieme alla famiglia, al seguito del padre ufficiale della Gendarmeria francese.

Ho pensato a come in quel luogo una università potesse dare lustro a tutta la zona e al valore che un tale contenuto potesse portare per la rinascita di tutto il centro antico, viverlo come un tempo, con i suoni, i colori e la vitalità dei traffici minuti.

Risalendo verso il Duomo mi sono fermato all’antica Cripta romanica, Santa Maria dei Sette Dolori, antico impianto dell’edificio di culto, costituita da colonne monolitiche e nelle volte alcune scene della vita di San Modestino dipinte da Angelo Michele Ricciardi.

Da essa attraverso una scala si accede alla base della torre campanaria, altro pezzo pregiato, costituita da grossi blocchi di pietra, lavorati in diversi modi, nient’affatto uniformi, utilizzati per le fondazioni, materiale proveniente dall’antica Abellinum.

Uscendo nel cortile si ha una visione della torre come di un museo di pezzi antichi è infatti tutta incastonata di metope romane (rilievo di un monumento funerario, due rilievi relativi a membri della gens Varia, un pinax con maschere bacchiche e altri fregi) quelle figurate furono messe tutte da un lato perché di qui passava evidentemente una stradetta, in epoca romana riferibile probabilmente alla via Campanina poi individuata in epoca successiva come vico Lungo dei Greci che fiancheggiava la torre e raggiungeva rampa Tufara.

Alla fine sono giunto in piazza Duomo, era quasi l’imbrunire e ho ammirato l’imponente facciata di quello che è l’elemento architettonico più importante della Collina della Terra che insieme alla torre campanaria sovrastano la piazza trapezoidale delimitata dagli eleganti palazzi Festa (XVIII sec.), Greco (XVIII sec.) e Amoretti (XVII sec) e dalla chiesa di San Biagio (XVII sec.).

Le fasce scure in piperno della facciata si confondevano nella notte e quelle chiare in marmo sembravano indugiare e sospendere il giorno in un cielo che ancora cade troppo presto.

Tutto il paesaggio che ho attraversato, alle prime luci dei lampioni, dava il meglio di se nel tempo grigio, per chi come me ama quei luoghi, sembrava togliere monotonia alla tristezza.....

 

 

 

 

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