Il buco al Corso:su una foto di Stefano Spina

di Franco Festa

C’ era un giardino di camelie, in quel vuoto. A primavera era un trionfo di fiori bianchi, rosa, rossi. Nulla di chiassoso: era semplice il ciclo della vita, in quel punto del Corso. Sul giardino si affacciavano le modeste terrazze delle case degli operai e le eleganti finestre degli avvocati e degli impiegati, che godevano insieme di quel regalo della natura. I bambini fremevano, perché alla fine dello spazio vi era un antro scuro, deposito di legna o di carbone o di altro, qualcosa d’ inconfessabile, per loro, di terribile. Ogni tanto il cancello di legno posteriore si apriva: si udivano voci, rumori. I bambini, dietro i vetri, tremavano. Nel negozietto vi era la sede di una società operaia: seduti lì davanti i pensionati, d’estate, guardavano la gente camminare, tra sorrisi e bisbigli. Si passavano le ore semplicemente osservando. All’inizio dell’anno scolastico, oltre quel muro, la gente si poneva silenziosamente in fila per gli acquisti a rate nella “Casa del Libro”.  Dietro, alla fine di via Dalmazia, vi era un vicolo cieco, d’inverno colmo di neve. C’erano bassi di povera gente e un portone scuro e marcito, alla fine,  impregnato di urina. Non era un tempo felice. Molte case erano piccole e fredde, i bassi erano terribili, con gli enormi letti all’ingresso e tanta gente costretta a vivere in poco spazio. Solo che il ricordo della nostra infanzia trasforma il tempo e la nostalgia non aiuta a capire ciò che è stato. Agli inizi degli anni ’60 l’equilibrio tra le classi s’ interruppe. Molti operai, artigiani lasciarono quelle piccole case in affitto, si trasferirono a Valle Mecca, a San Tommaso, nelle nuove periferie urbane. Il Corso fu da allora il luogo in cui la borghesia degli affari, rimasta sola, esercitò il suo disegno, il suo  catastrofico punto di vista. In una notte, il 31 agosto del 1968, si devastò con il rilascio di centinaia di licenze edilizie un piano regolatore già pronto. Quel palazzo fuori norma, fuori misura, senza grazia, sfondò il giardino, si accasciò sulle camelie, devastò gli spazi segreti, cancellò tutto, alla ricerca vorace di metri quadri da conquistare, di spazi da divorare. Le finestre si affacciarono sul nulla, su cortili oscuri e rabberciati, su vicoli abbandonati e sfregiati. Accadde in quel punto, in tanti punti. Il Corso, da allora, fu altro, un luogo smembrato e disarticolato, senza memoria: la vecchia cortina ottocentesca fu presa di mira, piccole e grandi bombe ad orologeria furono accese qua e là , finché tutto svanì e niente si sostituì alla precedente armonia. Mai più una visione d’insieme, solo una corsa affannosa di piccoli e grandi proprietari, solo guerre logoranti di carte bollate per un centimetro quadrato da guadagnare, un ammezzato da sventolare come un vessillo di gloria.  E il terremoto non era ancora arrivato. Quando si presentò, trovò il terreno spianato per continuare l’opera meritoria. Ordinanze miracolose si susseguirono, fino a che il passato fu azzerato. Occorsero anni, tanti, per ritrovare un qualche ordine. Non un senso, ormai perduto, ma un  assetto almeno presentabile. In quel punto, però, la storia mostra il conto, il passato riaffiora beffardo, convive con un irrisolto presente. Ecco la palazzina ricostruita sul fondo, l’orribile fabbricato in perenne attesa di essere abbattuto, lo spazio vuoto e il palazzo smozzicato e cieco.  Nessuno guarda oltre il muro, nessuno chiede perché ancora sia presente quello sfascio. Qualche bambino, passando, ha un lieve smarrimento di fronte a quella catastrofe. Altri fremiti, altre paure. Solo qualche volta, nelle prime notti di primavera, ragazzi che vagano cupi alla ricerca di sé o coppie di innamorati appoggiati al muretto avvertono rumori improvvisi o profumi sconosciuti alle loro spalle, oltre i cumuli d’ immondizia. Qualcuno forse continua a girovagare nell’antro scuro, la radice di qualche camelia prova ancora a farsi spazio nel deserto della città.

 

 

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