Le  Cinque  Giornate  di  Avellino (2-6 luglio 1820)

 Lorenzo de Concilj

di GERARDO PESCATORE

     È la pagina più luminosa della storia avellinese e meritatamente la più importante per  le conseguenze e i nuovi orizzonti che da questo avvenimento si dischiusero alle regioni meridionali e per i riflessi che si riverberarono su uno scenario storico più ampio. Infatti la rivoluzione del luglio 1820, che ebbe come sede Avellino infiammando per cinque giorni l’Irpinia e il Napoletano, riuscì a coinvolgere tutti i ceti sociali e segnò una svolta per la storia dell’Italia come l’alba del nostro Risorgimento, imprimendole un più rapido sviluppo, che troverà la sua conclusione con l’unificazione nazionale.

 Per questo motivo i moti sono stati chiamati forse con una punta di enfasi le “Cinque Giornate di Avellino” (2-6 luglio 1820) per stabilire un confronto con le più famose “Cinque Giornate” di Milano del marzo 1848, quando i Milanesi costrinsero gli Austriaci del generale Radetzky alla ritirata. L’incruento sviluppo e la mancanza di martiri  non sminuiscono l’importanza della rivoluzione irpina del 1820, anzi esaltano il merito dei suoi promotori che con un paziente lavoro di preparazione e di organizzazione riuscirono a produrre intorno ai loro ideali una partecipazione corale, tanto che la monarchia borbonica, privata di ogni punto d’appoggio all’interno ed incapace di opporre una resistenza armata, comprese che, per la necessità del momento, era più conveniente mettere il distintivo della rivolta.

     Con la Restaurazione, stabilita dal Congresso di Vienna (1815), sul trono di Napoli ritornò Ferdinando I delle Due Sicilie; ma subito prese a diffondersi uno stato di scontentezza e di malcontento della popolazione verso un governo, che, invece di rispondere al ristagno economico e all’enorme debito pubblico con riforme radicali che liquidassero i privilegi, faceva sentire il peso della tassazione con l’imposizione di tributi onerosi sui generi di consumo. 

     Si aggiunga che lo spirito, che aleggiava in quegli anni in Europa con gli ideali di libertà e di uguaglianza mutuati dalla rivoluzione francese, rendeva inaccettabili l’inasprimento delle pene con un ricorso troppo frequente alla condanna a morte, l’azione ferocemente repressiva contro ogni manifestazione di pensiero, e la censura sui libri provenienti dall’estero. La borghesia, i militari e il basso clero, i ceti più colpiti da questa ondata repressiva, manifestarono il loro scontento ingrossando le fila della Carboneria, in cui cominciò a diffondersi l’idea di un movimento rivoluzionario al fine di giungere ad ottenere una costituzione, che Ferdinando, allora spodestato, aveva fatto intendere nel proclama di Palermo del 1815 di concedere  col chiaro pretesto di attirare a sé i carbonari.

     Ma,  dopo aver rioccupato il trono, Ferdinando rimase sordo a quegli aneliti di libertà costituzionale, spingendo così la Carboneria verso un programma di lotta e di  scontro  con  la monarchia,  che fu favorito  dalle stesse milizie  provinciali,  necessarie principalmente  per  sanare  la  piaga del  brigantaggio,  allora  dilagante  in gran parte  del territorio meridionale.

     Non era certamente facile per la Carboneria, priva di un capo autorevole, di una struttura organizzativa omogenea e di un patrimonio comune di idee, promuovere un moto rivoluzionario in grado di strappare al re garanzie costituzionali. La nomina del generale Guglielmo Pepe a comandante delle due province di Avellino e di Foggia con il tenente colonnello, l’avellinese Lorenzo de Concilj a capo di stato maggiore, uomini di idee liberali, già distintisi nella rivoluzione per la creazione della repubblica partenopea del 1799, incaricati di sconfiggere il brigantaggio, sembrò  corrispondere  alle  aspettative  dei  patrioti  del Principato Ultra, dove la Carboneria era abbastanza diffusa. I due progettarono di far imprigionare nel palazzo della Prefettura di Avellino l’imperatore Francesco d’Austria, il Metternich, Ferdinando e i ministri Medici e Nugent. Ma, il disegno, audace quanto rischioso, andò in fumo perché la visita non ebbe più luogo.

     La notizia della rivoluzione di Cadice con l’immediato giuramento da parte del re Ferdinando VII della Costituzione del 1812 infiammò gli animi dei patrioti avellinesi, pronti ad agire, anche se mancava un preciso piano d’azione. Fu fissata l’insurrezione per la notte tra il 29 e il 30 maggio, ma per la delazione di uno dei congiurati l’impresa fallì con la conseguente decisione del governo borbonico di trasferire immediatamente il Pepe in Calabria e il de Concilj in Abruzzo. Il 22 giugno convennero a Nola per la festività del patrono San Paolino molti avellinesi conoscenti dell’abate carbonaro Luigi Minichini, i quali fecero sapere a Silvati che nella provincia irpina tutto era pronto per lo scoppio della rivoluzione. In realtà tra gli avellinesi c’era un tale fermento da spingerli la sera del 28 giugno a fare in piazza una dimostrazione armata.

     I tempi erano ormai maturi!  Per iniziativa dello stesso Minichini, che fece credere che le “vendite” del Principato Ulteriore fossero pronte alla rivolta, fu rotto ogni indugio e nella notte del 1º luglio, festa di S.Teobaldo, patrono della Carboneria, a Nola insorse al grido di “viva Dio, viva il re, viva la costituzione” uno squadrone di 130 soldati del Reggimento “Borbone Cavalleria”, al comando dei sottotenenti Michele Morelli, capo della sezione della carboneria di Nola, e Giuseppe Silvati. Essi, dopo aver disertato, marciarono nella notte verso Avellino, capoluogo della provincia, seguiti da altri 20 carbonari raccolti dal Minichini  e dal canonico Giuseppe Cappuccio di Mirabella.

 

     Il de Concilj, destreggiandosi abilmente per non compromettersi agli occhi di Ferdinando II, fino ad apparire ostile ai patrioti, riuscì ad  evitare  il  trasferimento  e  a trovarsi ad Avellino per lo scoppio dell’insurrezione. Decisivo per il buon esito dell’impresa fu l’accorta strategia del giovane ufficiale avellinese, che stava preparando il terreno e disponendo gli animi dei liberali e delle stesse autorità ad assecondare l’azione onde assicurare il successo della causa costituzionale: d’accordo con Morelli, fece ripiegare lo squadrone verso Mercogliano per evitare che l’ingresso in Avellino, dove il governo disponeva di forze superiori, provocasse disordini e provvide a fortificare e a presidiare  con altre compagnie di soldati i tre principali sbocchi provinciali (Monteforte, la valle Caudina e il confine col Principato Citeriore) per far attestare gli insorti sulle gole di Monteforte. Qui infatti, essendo il punto più vicino al capoluogo, si attendeva l’attacco delle truppe borboniche. Nel contempo fece informare il generale Pepe, trattenuto nella capitale, dello scoppio della rivolta  per ricevere ordini.

     A quei primi germi di insurrezione  Napoli non attribuì eccessiva importanza,  tanto che il re,  come riportò il “Giornale del Regno delle Due Sicilie”, dopo aver dato disposizione di “arrestare quella masnada e mettere al sicuro la proprietà de’ privati”, la sera del 3 luglio si recò al Regio Teatro S. Carlo. C’era però la difficoltà di scegliere a chi affidare l’impresa di reprimere l’insurrezione.

    Scartata l’idea di conferire l’incarico a Pepe perché murattiano con simpatie liberali, il consiglio dei ministri si rivolse prima al generale Michele Carrascosa, anche egli murattiano, che, desiderando concorrere alla libertà della patria, non intendeva  però combattere i liberali e tentò di risolvere la questione in modo pacifico  mediante  trattative  con  i  rivoluzionari, infine ai generali Nunziante e Campana di stanza a Salerno. Grazie all’azione di de Concilj, che fece deviare lo squadrone di Morelli e Silvati verso Mercogliano per toglierlo dalla strada principale, il 3 luglio gli insorti, inalberando le bandiere tricolori carbonare -rosso, nero e celeste-, entrarono tra gli applausi di un popolo festante e accolti dalle autorità cittadine (rassicurate dal fatto che non avevano intenzione di rovesciare la monarchia) in Avellino, dove nel Gran Largo dei Tribunali, che da allora fu denominato piazza della Libertà, Morelli attribuì a de Concilj il merito dell’insurrezione cedendogli per modestia il comando.Nella piazza, divenuta il centro e il simbolo del moto insurrezionale, furono esposte bandiere sui palazzi dell’intendente e del vescovo e sul campanile della chiesa di S. Francesco.

     Nel tripudio generale “il leone d'Irpinia”, secondo l’appellativo dato a de Concilj dallo storico Vincenzo Cannaviello nella sua monografia, proclamato capo di tutte le forze costituzionali, dopo aver giurato fedeltà al re e alla costituzione di Spagna, assunse il potere esautorando l’intendente, marchese S. Agapito, che non aveva voluto prestare il giuramento. Lo stesso giorno le truppe rivoluzionarie entrarono a Salerno, mentre tumulti e rivolte scoppiarono in quasi tutte le regioni meridionali.

     Contro Avellino, promotrice e quartier generale del movimento rivoluzionario, mosse da Nocera la controffensiva borbonica dei generali Nunziante e Campana, fermata in uno scontro tra Montoro e Sanseverino e frustrata dalle diserzioni e dalle sollevazioni della Puglia e del Molise. L’intervento diretto di Guglielmo Pepe, nelle cui mani il de Concilj il 6 luglio depose con nobile disinteresse il comando delle forze costituzionali, sancì la saldatura tra carbonari e murattiani e fece mutare carattere all’insurrezione, di fronte alla quale Ferdinando, consigliato dalla corte, emanò nello stesso giorno un editto promettendo di concedere entro otto giorni la costituzione,

     Quel respiro di libertà provocò esultanza in tutto il regno, ma non spense la concitazione popolare per il comportamento del re, che, adducendo a pretesto un’infermità di salute, aveva rimesso l’autorità regia nelle mani del figlio Francesco, duca di Calabria, nominandolo Vicario del Regno. Tuttavia il re non poté che prendere atto della necessità del momento e si convinse a sottoscrivere il decreto che riconosceva la costituzione spagnola del 1812.

     Il giorno 9 avvenne  la celebrazione del trionfo  con un corteo per le strade della capitale dal Campo di Marte fino alla reggia del drappello di Morelli e Silvati, che il 23 dicembre una legge del Parlamento denominò “squadrone sacro”, dei comandanti Pepe e de Concilj a capo delle loro milizie, della guardia civile e dei settari dei sacerdoti Minichini e Cappuccio, ricevuti nella gran sala delle cerimonie dal duca di Calabria in abito da cerimonia e col petto ornato del nastro della Carboneria.

     A  mezzogiorno del 13 luglio, nell’oratorio del Palazzo, al cospetto della Giunta, del Ministero e dei grandi della Corte, il re, salito sull’altare, stesa la mano sul Vangelo, approvò la costituzione pronunciando la formula di giuramento. Concessa la costituzione, il Re nominò una giunta provvisoria di governo, col compito di preparare ed indire le elezione dei Deputati al Parlamento Napoletano (22 luglio 1820), da cui sarebbe uscito il primo parlamento, nel quale avrebbe trovato posto anche de Concilj. Nasceva ad Avellino per il valore e le capacità strategiche di Lorenzo de Concilj lo stato costituzionale napoletano, come è  bene evidenziato nell’epigrafe incisa sulla lapide marmorea sotto un bassorilievo di bronzo sulla facciata del Palazzo del Governo di Avellino e scoperta nel centenario, che esalta e l’importanza delle Cinque Giornate di Avellino, come l’avvenimento che segnò l’incipit delle lotte del movimento rivoluzionario nel Mezzogiorno per l’unificazione dell’Italia

     Dalla prima “rivoluzione borghese” dell’Ottocento italiano, come fu salutata con calorosa passione dalla storiografia romantico-patriottica, “spuntava l’alba del Risorgimento nazionale”, ma, anche se durò pochi mesi perchè fu repressa il 23 marzo del 1821 dagli Austriaci  per  il  tradimento  del  re  Ferdinando I,  era  destinata a   gettare semi ancora più fecondi aprendo la strada al lungo e non facile processo che approdò quaranta anni dopo all’unità d’Italia.

 

 

 

 

Privacy policy