UNA STORIA  DI  EMIGRAZIONE

di

Gerardo Pescatore

 

L’emigrazione colpì la nostra comunità, come gran parte degli Italiani non soltanto delle regioni meridionali, all’indomani dell’unificazione nazionale (1861) e si sviluppò nella prima metà del Novecento tanto che fin dal 1901, allo scopo di regolare i flussi e di fornire tutela agli emigrati, venne creato il Commissariato generale dell’emigrazione.

Le condizioni economiche e sociali delle terre del Sud, a coltura essenzialmente agricola, versavano in estrema miseria e soprattutto senza speranza di miglioramento, aggravate come erano dal decollo industriale dell’Italia centro-settentrionale. La vita grama spinse un gran numero di uomini ad abbandonare il nucleo familiare e a raggiungere le Americhe (settentrionale e latina), sperando poi di ricomporlo nel “nuovo mondo” o, accumulato un buon gruzzolo di dollari, di fare ritorno nei paesi d’origine..

Avellino fu una delle province che diedero il maggior numero di emigranti, diretti nel paese della democrazia e del benessere, che  racimolarono i  risparmi di tutta la famiglia per pagare un biglietto di III classe e si separarono dai loro cari per sopportare le difficoltà di un viaggio lungo anche venti giorni e il soggiorno in una terra sconosciuta in cerca di  un futuro meno incerto.

Sulle banchine dei porti di Napoli, Palermo e Genova, da dove salpavano i bastimenti, si radunava un gran numero di famiglie, che al momento dell’ imbarco offrivano il doloroso spettacolo del distacco.

 

 

Dopo un viaggio lungo e pieno di disagi, ammassati sui ponti o nelle stive delle navi, giungevano  nella bellissima baia naturale in cui è situato il porto di New York, dove campeggia la Statua della Libertà.  Qui i passeggeri con passaporto americano e quelli che occupavano la prima e la seconda classe venivano ispezionati superficialmente nelle loro cabine e, scortati a terra da ufficiali dell’immigrazione, potevano sbarcare tranquillamente. Invece i passeggeri di terza classe, il cui afflusso era sempre altissimo, venivano trasportati sul battello del dipartimento federale Americano dell’immigrazione a Ellis Island, un isolotto  di  fronte  a  Manhattan,  divenuta   dal   1894   casa   di   prima  accoglienza,  per  sottoporsi  a  una  più  dura

 

 

ispezione. Innanzitutto un esame medico, in seguito al quale, chi aveva deformità veniva inviato in un'altra stanza per un esame più approfondito.

Dopo questa prima ispezione, gli immigrati  passavano alla Sala di Registrazione per il controllo individuale, che era il momento più temuto in quanto la paura di essere rifiutati era grande perchè occorreva dimostrare di essere in condizioni di lavorare e di mantenersi.

Anche  mio padre Leondino Pescatore dovette provare la triste esperienza dell’esodo dalla propria terra e affrontare le difficoltà della vita in una terra straniera.  

E io, scovando nella mia mente lontane e vaghe reminiscenze dei suoi racconti e giovandomi dei ricordi piuttosto sbiaditi di mio fratello Antonio, ultranovantenne, desidero rendere omaggio ai sacrifici compiuti da lui per assicurare maggiore benessere alla propria famiglia e, attraverso lui, manifestare rispetto ai tanti avellinesi che dovettero intraprendere la stessa strada.

Nel 1904 mio nonno Luigi Modestino, ebanista, si trasferì da Valle con la famiglia (moglie  e  due  figli)  negli  Stati  Uniti,  per avventurarsi  in  una  terra  così  lontana  

 

 

compiendo un viaggio di 16 giorni alla ricerca di un’attività più redditizia. Imbarcatosi  a  Napoli sulla nave “Italia”, lunga 400 piedi e larga 49 piedi, giunse nel

 

porto di New York il 24 aprile 1904.

Superati tutti i controlli, ricevette il permesso allo sbarco e da New York venne indirizzato, come la maggior parte degli immigrati, verso il confinante stato del New Jersey, dove si stabilì in uno dei distretti etnici in rapida espansione.

Si fermò nella città di Paterson, che ospitò una consistente colonia di Italiani. Qui fu assunto da una grande fabbrica di mobili e dopo alcuni anni riuscì a comprare una piccola casa in campagna.

Mio padre aveva 20 anni. In Italia aveva conseguito il diploma delle scuole tecniche, ma  volle  continuare  gli studi   in  U.S.A.  iscrivendosi   a   corsi  parauniversitari   e

specializzandosi in motorismo e tecniche delle comunicazioni. Con questa specializzazione poté essere assunto in una società automobilistica di trasporti. A contatto con la tecnologia e la modernità della società statunitense, ebbe l’idea di  realizzare anche ad Avellino un’azienda di comunicazione per il trasporto di persone e per la distribuzione della posta nei paesi dell’Irpinia.

Ogni tanto tornava in Italia non solo per cercare di mettere a punto il suo progetto, che realizzerà con la creazione della S.I.T.A., ma anche perché desiderava sposare una ragazza della sua città (come poi avvenne nel 1913) per rientrare definitivamente a Valle nel 1915 e partecipare come volontario alla grande guerra.

 

 

 

Mio padre amava spesso intrattenerci  raccontando i disagi incontrati nel lungo viaggio transoceanico e i severi controlli, cui il governo americano sottoponeva gli emigranti. Noi ascoltavamo incantati i suoi racconti come se fossero le gesta del protagonista di un romanzo d’avventure. Egli diceva che i controlli per gli stranieri che viaggiavano in terza classe erano rigorosi tanto che taluni emigrati, che temevano di non essere ammessi in America,  fecero uno sforzo in più per comprare il più costoso biglietto di seconda classe, che si aggirava sui quaranta dollari. Molto scrupoloso era anche  l’esame medico in seguito al quale, chi aveva deformità, veniva escluso dal flusso principale e sottoposto a un esame più approfondito per accertarne le condizioni di salute. Se vi erano condizioni particolari di infermità veniva trattenuto all’ospedale di Ellis Island per la “quarantena”, il  periodo di isolamento delle persone sospette di portare i germi di malattie infettive contagiose, oppure  reimbarcato.

Il  momento  più  straziante avveniva  quando gli immigrati  lasciavano la Sala  di Registrazione  e alcune famiglie venivano divise e avviate verso diverse destinazioni.

 

Per questo motivo tra gli immigrati Ellis Island meritò il nome di “Isola delle lacrime”.

Il controllo individuale vero e proprio era il momento più temuto in quanto la paura di essere rifiutati era grande perchè occorreva dimostrare di essere in condizioni di lavorare e di mantenersi. A questo proposito mio padre ricordava che due amici, conosciuti sulla nave, furono rimpatriati.

Ma se si temeva   la severità dei controlli, dovuta al fatto che tra gli immigrati si infiltravano anche delinquenti, mio padre riconosceva che, una volta superati questi scogli, l’immigrato veniva accolto ed integrato nella società americana vedendosi riconosciuti. i suoi diritti, innanzi tutto in materia salariale. Il soggiorno a Paterson infatti fu un’esperienza positiva per lui, che non subì mai vessazioni o discriminazioni.

Oggi più che mai appare necessario conoscere e tenere presente l’importante fenomeno  dell’emigrazione, in quanto l’Italia si è trasformata in terra di sbarco per centinaia di migliaia di lavoratori stranieri, nei cui confronti bisogna applicare (tranne che non si tratti di pregiudicati) il concetto dell’accoglienza, della solidarietà  e del rispetto della dignità umana ed allontanare atteggiamenti criptorazzisti  e quei rigurgiti di intolleranza se non di xenofobia, verso i quali sta pericolosamente scivolando in questi ultimi anni il nostro Paese.

 

 

 

 

 

 

 

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