TRA LA FAVOLA E IL RACCONTO

Era stato allora, quando aveva alzato lo sguardo su quell’edificio circondato da transenne, su quel monumento che sembrava dovesse cadere a pezzi da un momento all’altro, che l’aveva riconosciuto. E insieme a quel riconoscimento, anzi tutt’uno con quel riconoscimento, un’immagine si era stampata nella sua testa, un vecchio cinema, ospitato tra quella mura, un’uscita con le amiche per vedere un film, doveva essere stato “Basic Instict”, con l’attrice del momento, “Sharon Stone”, così le sembrava di ricordare. A casa, per evitare risatine e commenti, aveva detto che sarebbe andata a vedere “Batman”, che proiettavano quella stessa settimana al Partenio, ma forse perché con i suoi aveva parlato tanto di quell’altro film, la pellicola dello scandalo per quegli anni ancora puritani e in fondo ipocriti, suo padre doveva aver capito. E così all’appuntamento con le amiche, davanti all’Umberto, si era ritrovata anche lui, affianco alla locandina che pubblicizzava il film, con lo sguardo accigliato e serio, non capiva perché delle ragazzine dovessero voler vedere una roba del genere. Anche se probabilmente non sapeva nulla di quella pellicola. Era stato inutile spiegargli che era anche un thriller, di quelli da tenere incollati alla poltrona fino all’ultimo, suo padre non le aveva certo creduto o comunque quell’informazione era passata in secondo piano. E poi non l’aveva comunque ingannato? Fatto sta che l’aveva prelevata, a stento il tempo di salutare le amiche, che la guardavano in silenzio inebetite, senza capire, e, poi, messa in macchina, mentre, morta di vergogna, continuava a guardare la sagoma dell’Umberto che scompariva sullo sfondo. Allora non sapeva neppure che quell’edificio fosse stato la Dogana della città. Ricordava, nei giorni successivi, quelle discussioni con gli amici sulla pellicola e il suo imbarazzo nel raccontare il perché non fosse riuscita a vederlo…Rievocando quell’immagine, era scoppiata in una sonora risata, non era mai più entrata in quel cinema, da lì a qualche anno l’Umberto avrebbe chiuso, non aveva mai saputo come fossero le poltrone, quanto fosse grande lo schermo, come fosse l’audio. Chissà se suo padre ci era mai stato all’Umberto? Non glielo aveva mai chiesto. E poi un altro pensiero, se suo padre fosse stato vivo, era sicura che ora l’avrebbero visto persino insieme quel film. Ora sentiva che quella scena la infastidiva ancora, perché sembrava stridere così tanto con l’immagine che aveva di suo padre e perché le sue amiche dovevano certo aver pensato che quel genitore fosse bacchettone come pochi e invece non lo era mai stato. Tranne in quella circostanza. Negli anni lo spazio della Dogana era diventato soltanto il luogo dove darsi appuntamento con un’amica per vedere il film che proiettavano al Duomo. “Ci vediamo sotto il re di Bronzo?”. Quante sere ad aspettare in compagnia di quello strano amico, un po’ troppo in alto per poterlo guardare negli occhi, la Dogana già non c’era più o comunque era come se non ci fosse. E poiché la mia amica era alta non più di Carlucciello, ecco partire battute su battute. Forse non si era neppure più interrogata su cosa fosse accaduto di quell’edificio un tempo cuore della città. Cosa le importava?? Non c’era più nessuno ora a impedirle di vedere i film che davano in piazza. Era questo ciò che contava o no? Qualche metro più avanti la solita fila di negozi, così diversi da quelli di ieri, e d’improvviso una nuova rivelazione, tirò fuori dalla tasca una foto, sua madre, pantaloni a zampa, chioma luminosa, con una bimba in braccio e un bimbo per mano che faceva le boccacce, lungo lo stretto della città, era via Nappi, alle spalle le carrozzine e i passeggini esposti davanti a un negozio di articoli per bambini. Nella sua testa quella parte della città era a lungo rimasta legata a quella foto, forse perché così lontana da dove abitava lei, era diventata il simbolo di una parte segreta della città, la più bella, forse per un po’ aveva persino creduto che non esistesse più. I ricordi di sua madre e suo padre sembravano ricondurla alla parte più antica di Avellino, era come passeggiare in una città fantasma, il centro storico di Avellino non c’era più, era sparito con la sua infanzia, la sua adolescenza, rimaneva solo la statua di Carlucciello, testimone di un tempo perduto, sembrava una di quelle statue di De Chirico, sistemate all’improvviso nel mezzo di una piazza, senza alcun legame con la realtà circostante. Era come se il fantasma di suo padre fosse lì accanto a lei a indicarle cosa era stato un tempo ogni edificio, ogni palazzo, vedeva la gente passeggiare, fare la spesa, il pulsare della vita, antichi caffè e negozi, ma era tutto solo nella sua testa. Solo fantasmi, sembrava un racconto di Dickens, per un momento ebbe l’impressione che da un momento all’altro potessero comparirle davanti gli spiriti di Fanzago e dei principi Caracciolo, sentiva le loro voci, che chiedevano con insistenza dove avessero spostato la Dogana. Lei continuava a ripetere che non lo sapeva e non era certo colpa sua. Scoppiò in una sonora risata ancora una volta, perché quegli spiriti venivano da lei? Poi vide il rassicurante sorriso di suo padre, lei ragazzina davanti all’Umberto, sentì che ciò che era stato poteva continuare ad essere, poteva ritornare a vivere. Salutò Carlucciello con la mano ed entrò in una piccola libreria, un gruppo di uomini e donne parlavano del palazzo della Dogana, di come poteva essere salvato, di come Avellino poteva tornare a vivere, lì tra loro c’era anche suo padre, si sedette e rimase in silenzio ad ascoltare. Nascosti, le facevano l’occhiolino Fanzago e il principe.

                                                                                                                    Floriana Guerriero

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