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Così si giocava a Bellizzi, negli anni ‘70

- di Giovanni Carullo –

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       Se è vero, come disse Eduardo,  che gli esami non finiscono mai, è altrettanto vero che il successivo ti fa sembrare una sciocchezza il precedente, di cui pure avevi avuto tanta paura.

Cominciai a capirlo a 9 anni, seduto sulla panchina di marmo di Piazza Napoli ( già Piazza Roma, come detta la lapide marmorea), insomma ‘a ret o’ palazzo, là dove si acquisivano le prime, importanti,  scoperte della vita. Ero preoccupato per l’esame di V elementare che di lì a pochi giorni avrei sostenuto e temevo allo stesso modo sia la prova del dettato che il problema di aritmetica ( indicazione, calcolo e soluzione, cosi’ si divideva il foglio prima di procedere nell’esecuzione, abbellendo il foglio con cornicette geometriche di cui ero diventato uno specialista).

-       L’esame di quinta e’ una sciocchezza – mi disse Walterino – quello difficile si fa in terza media – aggiunse, assumendo l’aria di chi stava per superare  uno strepitoso ostacolo, tappa fondamentale, rito di iniziazione che a noi bambini delle elementari sembrava cosi’ lontano : a Bellizzi non c’erano nemmeno, le scuole medie!

 

 

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Si parlava di queste cose sulla panchina di Piazza Napoli e con una mano si grattava la testa al randagio di turno, la stessa mano che pochi istanti prima aveva finito di stringere l’asticella del cremino alla banana, 20 £, comprato da Letizia. Il randagio si accucciava ai piedi della panchina e stava ad ascoltare i discorsi, compariva per poche settimane a presidiare quel territorio e poi spariva nel nulla, cosi’ come era arrivato, non senza aver prima marchiato con geometrica precisione ogni angolo della piazza, motivo per il quale alla fine si dava a tutti lo stesso nome : Pepp ‘a sciorda.

E se il Super Santos, acquistato con tanta fatica per racimolare le 700 £ necessarie, finiva per imbrattarsi sulle tracce organiche di Pepp’, la partita si sospendeva solo per pochi istanti, giusto il tempo di prendere il pallone con le mani, cercare un ciuffo d’erba o quattro granelli di sabbia e strofinarcelo sopra finché non riappariva, perfettamente asciutto, l’originario colore arancio.

La partita rimaneva sospesa in un tempo magico, nessuno si preoccupava se toccava riprendere il gioco con un pallone cosi’ contaminato, si rispettava il compagno che si era fatto carico di quel gesto igienizzante e gli si stringeva persino la mano. Lo stesso rispetto che meritava la “distanza”  chiamata da chi si trovava costretto a recuperare il pallone incastrato tra il pavimento e la marmitta di una 127 sport,  e allora toccava allungarsi con le braccia o persino con le gambe, disincastrare la palla, verificare che non celasse tracce d’olio, che in quel caso bisognava ancora andare in cerca di un ciuffo d’erba ( un altro!) o di un pugno di sabbia.

Le partite duravano tanto ed i punteggi si dilatavano come risultati tennistici : 7 a 3, 6 a 4, 8 a 0 : cappotto! , il massimo dell’umiliazione, ma se si arrivava all’ 8 a 3, allora per una regola esoterica mai dimostrata ma efficacissima ( il 3 batte l’8!) rifiorivano le speranze ed un brivido di energia sfiorava le schiene dei giocatori soccombenti che in ogni caso riuscivano ad avere la meglio. Sempre se prima il pallone non fosse finito tra le ruote di un’auto di passaggio, perché in quel caso occorreva rincorrere l’auto sbracciandosi nel disperato tentativo di fermarla, prima che il pallone fosse trascinato sino  alla periferia del paese.

Si giocava a porte piccole : larghe circa un mero, si delimitavano con grossi sassi, sempre attenti che nelle fasi concitate del gioco qualcuno non facesse il furbo e desse un colpetto al “palo” restringendo l’area del gol. Quando non era possibile il mero criterio geografico,  Abbasc i Bellizzi Vs. N’copp i Bellizzi,  le squadre nascevano col tocco, i due piu’ forti, autoproclamatisi capitani, procedevano alla scelta dei compagni dopo essersi esibiti nella conta : “pe te, pe te, pe te!’” e via con le dita aperte a segnare un numero; il pugno chiuso significava “zero”. Grande la soddisfazione di essere scelti per primi, malinconica l’attesa di aggiungersi ad una squadra solo per un dato numerico, perché eri l’ultimo rimasto e alla fine nessuno ti aveva scelto. Ma avevi modo di riscattarti, magari offrendoti di parare un rigore, quel tipo di rigore strano che si tirava nel calcio a porte piccole. Si poteva scegliere : o il portiere si fissava come una statua sulla linea di porta, assumendo la postura che secondo lui meglio copriva l’area per fare gol, oppure si posizionava sopra al palo, potendo estendere solo una gamba, unico arto ammesso per intercettare la palla.

Il rigorista a sua volta doveva essere attento a non calciare troppo alto, sia perché si trattava di una porta piccola anche in altezza, sia perché oltre il muro, la dove si sedevano spettatori di passaggio, il pallone rischiava di finire nell’aia di Masto Minuccio e ancora oltre nel giardino di Minicuccio e non era detto che ti restituissero il pallone :  addirittura si raccontava di quella volta, come di un evento mitico di cui non c’erano piu’ testimoni, che essendo andati a riprendere la sfera ( ci andava di norma chi l’aveva buttata, ma si preferiva mandarci, ove presente, chi per motivi di vicinato o parentela poteva disporre di una concreta possibilità di persuasione), questa era stata restituita pezzo a pezzo, dopo essere stata squarciata.

Ben diverse strategie richiedeva il recupero del pallone quando questo finiva nel recinto di Lenuccia : l’area ospitava due pastori tedeschi, mamma e figlio, che le rare volte che non erano intenti ad accoppiarsi, ma spesso anche interrompendo i vari corteggiamenti, erano soliti attaccare i loro canini alla palla, addirittura prima che questa finisse la serie di rimbalzi. Se l’attacco non era repentino c’era ancora una labile speranza di recupero : o si bussava alla porta della proprietaria, che al terzo scampanellio cominciava a dare segni di impazienza, o, dal quarto recupero in poi, ci si organizzava  : uno si prendeva la briga di distrarre i cani, chiamandoli verso il lato opposto del recinto, un altro, quello con le dita piu’ sottili ( non solo perché meno appetibili ma soprattutto perché piu’ abili),  cominciava  a spingere il pallone da una maglia della rete di recinzione a quella successiva fino a portarlo ad un’altezza tale che il terzo compagno potesse calarsi dall’alto del muretto su cui si era arrampicato, ed allungare una scopa o un semplice bastone di modo da tirarlo in alto, spingendolo contro la rete in una serie innumerevole di recuperi  che si risolvevano molte volte a pochi centimetri dalla conquista, appena i cani tornavano sui loro passi, e allora occorreva ricominciare tutto daccapo. Solo allora, dopo essersi guardati silenziosamente dentro agli occhi, di decideva di bussare alla porta di Lenuccia per la settima volta. Poi la partita poteva riprendere, ma il punteggio a quel punto non era mai cosi’ certo, qualcuno ricordava che ci si era fermati sul 3 a 1, qualcun altro sosteneva che si era sul 3 a 2, addirittura qualcun altro  era pronto a giurare che aveva appena segnato il gol del pareggio.

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Piu’ lunghe erano le pause quando il pallone finiva all’interno del palazzo scolastico (o, meglio, quello che rimaneva del vecchio palazzo scolastico), ormai ridotto ad una specie di rudere con le finestre malamente sprangate e con le porte divelte : allora, tutti insieme, occorreva scegliere il piu’ abile ad entrare attraverso l’asse spostato, quello capace di calarsi lungo il bordo del pavimento crollato, temerario fino al punto di raggiungere le scale, isolate dal solaio, ed arrivare fino al piano interrato, dove finiva immancabilmente la palla. Spesso, poi, costui non fuoriusciva tempestivamente  e neppure rispondeva al richiamo dei compagni : allora si decideva di scendere tutti insieme dalle scale sul retro, e mentre qualcuno si fermava a costruire con un filo d’erba un cappio per catturare un’assonnata lucertola, tutti quanti si finiva a far compagnia al primo, rapiti in estasi davanti a quei murales ante litteram che per l’età costituivano le prime lezioni di educazione sessuale, assai piu’ esplicite di qualsiasi giornalino per adulti che pure ci  si riusciva a procurare nel salone del barbiere.

C’erano giorni che il barbiere era atteso con la medesima ansia della venuta di Babbo Natale. Accadeva quando si aspettava  che dietro le vetrine del suo locale comparissero, legate ad un filo di spago con delle mollette da bucato, le bustine dei calciatori della raccolta Panini. Costavano 25 £ l’una e dentro ognuna c’erano 4 giocatori , se eri fortunato ti usciva persino lo scudetto. Si diceva che ad Avellino centro vendessero bustine da 50 lire, con il doppio dei giocatori, ma bisognava aspettare che qualcuno ci andasse ad Avellino, per poter verificare la notizia. Tutti quanti giravamo con le tasche dei pantaloni deformate da mazzi enormi di giocatori tenuti insieme da elastici gialli, ma anche cento giocatori e passa non valevano niente se non avevi con te uno difficile che faceva gola a tutti, perché gli mancava solo quello per completare l’Atalanta.

Ci si sfidava coi giocatori : e stavolta l’impeto era maggiore rispetto alla  partita a porte piccole, c’era una posta da conquistare; si giocava a butt’a n’terra, a vott’a n’cielo, a suscio, a pacchero, a tips ( con la punta di pollice ed indice), a pa’! ( forte soffio emesso pronunciando la sillaba) e si poteva scommettere o su tutte le figurine, 20,30,40, a seconda del numero di giocatori che competevano, e allora si lanciavano in aria scommettendo sul numero di calciatori che finivano a testa in giù  (croce), oppure si individuava una figurina di rappresentanza e sull’esito del suo lancio si faceva dipendere la conquista o la perdita dell’intera posta.

Si giocava con le figurine nelle aule della scuola, nella sacrestia della chiesa di sopra e di quella di sotto, nell’androne dei portoni,  negli stessi posti, dove, nel resto dell’anno, in attesa della pubblicazione dell’album da parte della Panini si improvvisava anche qualche partita con le tecchie ( bocce tonde appiattite)  o con le biglie colorate.

E si giocava anche sul sagrato della chiesa, quando non ci si cimentava nel salto dei 7 gradini, o nel gioco dei 4 cantoni, o nella partita a pì : si giocava a di solito la sera, alla fine della messa vespertina, non appena Don Nicola avesse finito di registrare le presenze dei chierichetti ( che il più assiduo si assicurava un pellegrinaggio alla Vergine del Carpinello o alla Madonna dell’Arco o a San Gerardo con pranzo a sacco ai Laghi di Monticchio) e avesse finito di leggere la storia della vita di Lazzaro Spallanzani.

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Ci si divideva in due squadre : tutti correvano a nascondersi ed ognuno dei partecipanti doveva conquistare il fortino immaginario del nemico ( generalmente un angolo del sagrato), attento a non farsi scoprire e sparare dai componenti della squadra avversaria pronti a puntare il dito indice e ad urlare : pì…, pì Francois!, pì Massimo!, pì Lello!, pì Italo!, pì Pietro!,  fino all’eliminazione di tutti gli avversari.

Ma il gioco poteva finire ben prima, al richiamo delle madri affacciate alle ringhiere dei balconi, che l’ora si era fatta tarda, e la luce dei lampioni ormai allungava sulla strada soltanto l’ombra di Pepp’ a sciorda, padrone della notte bellizzana.

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