In certi momenti, spesso lunghi periodi
di settimane o mesi, le cose paiono accordarsi, congiurare addirittura, per
provocare reazioni e comportamenti, che aspettano solo un innesco per
manifestarsi, forse per raggiungere la temperatura critica, come nelle reazioni
chimiche. Il concetto è più comprensibile ricorrendo a un’altra similitudine,
più biologica: alcuni processi metabolici hanno bisogno per avviarsi o
completarsi, di catalizzatori (enzimi) che ne riducono i tempi, rendendoli
compatibili con quelli brevi della fisiologia degli organismi viventi.
Negli ultimi due anni ho subito
situazioni in ospedale (il famoso “disagio medico”, di cui parlano i nostri
sindacati di categoria, sarà questo?). Mi occupo di tiroide in particolare e lo
faccio avendo percorso un tratto lungo il quale mi sono tirato dietro il mio
approccio personale alla vita ed alle cose in generale; come tutti quelli che
s’incamminano e procedono. Chi mi conosce da lungo o breve tempo, o mi conoscerà
in futuro, potrà alla fine dirlo buono, passabile, insufficiente o pessimo. Nel
preistorico 1972, dopo la maturità, mi distolsi quasi subito dall’interesse che
avevo avuto per la politica militante negli anni cruciali intorno al 68. La
grandissima (oggi mi sento di dirlo) preside Costanza Convenevole mi disse,
molto tempo dopo, da adulto riconosciuto e di “successo”, che ero stato un
capopopolo (minore) studioso, simpatico e educato di un’epoca che voleva
cambiare il mondo e finì, invece, per avvoltolarsi nelle maglie di
contraddizioni, incomprensioni ed impossibilità enormi. Allora, riconosco oggi,
si dicevano ed ascoltavano vagonate di cazzate. Alcune delle cose di allora,
però, hanno marchiato in modo indelebile me ed altri che conoscevo, ricordo con
piacere ed anche incontro oggi per lavoro, loro o mio. Persone che scorgo in
vecchie foto, come quelle sul sito www.avellinesi.it. Alcune di queste foto
hanno giocato il ruolo degli enzimi di cui parlavo prima. La cosa più importante
impressami a fuoco nel cervello da quei tempi, e che ancora è inalterata in me,
è una visione del mondo (forse ci riesco ancora a scriverlo in tedesco, provo:
una Weltanshauung) per cui la vita è da prendere, possibilmente, in modo
piacevole, ma è sempre un fatto serio, come la giri e come la volti. La nostra e
quella degli altri. Questo ha implicato per un criterio di giudizio del grado di
positività, fino al massimo grado d’eroismo, delle persone che ha sempre fatto
riferimento alla loro capacità di far prevalere su vita e bisogni propri quelli
degli altri, o, almeno, di considerarli. Se la vita è un fatto serio ed
irripetibile, ognuno può e deve viverla in modo consapevole, cercando di non
sprecarla e, nel contempo di non accumulare rimpianti. Un’altra acquisizione di
allora è che non esiste niente di immutabile per definizione. Non è vero che non
serve affannarsi a cambiare brutture e/o storture del vivere civile. Sempre a
quegli anni risale la convinzione piena che è un dovere tentare il governo
delle cose per cambiarle o spingerle nella direzione degli onesti, di quelli
che, prove alla mano, dimostrano di non avere intenzione di far prevalere i
propri egoismi, prepotenze e deliri di onnipotenza su tutto.
Un altro enzima operante in me in
questi giorni è un editoriale del prof. Mansi, mio relativamente nuovo, ma caro
vecchio amico. Il titolo è: Il Futuro non è più lo stesso, pubblicato sul
Bollettino Elettronico dell’Associazione Italiana di Medicina Nucleare con
osservazioni e divagazioni sue sul futuro dei giovani medici nucleari
(www.aimn.it) per chi volesse leggerlo. Laureato, poi specializzato (vedete voi
quanto tempo) sono entrato nel mondo della professione, e mi sono ritrovato di
nuovo caporione, sempre per necessità, dal mio punto di vista, per un periodo
breve. Ho scritto volantini e giornali, mi sono immaginato ed indicato percorsi
di pace e di “guerra” nella vita professionale, ho preso iniziative, al tempo
finite anche sui giornali nazionali. Sono stato (per poco tempo) prima
presidente dei giovani medici, poi più giovane Consigliere di Ordine dei Medici
d’Italia. Erano passati 10 anni dai banchi del Liceo, dalle lezioni di Freda o
di Flores, o di Marinari e dai rimbrotti nei corridoi di Pulzone o…, ma, guarda
caso, le persone che ho incontrato e mi hanno affiancato in questo secondo
percorso erano ancora quelle, le stesse che ritrovo sulle fotografie di quegli
anni lì. Io non amo gli amarcord fini a se stessi. Credo che il parlarsi ed il
vedersi tra vecchi compagni e amici, nemici, magari anche avversari ha senso se
la strada comune non si è completamente interrotta, se sono rimasti accesi
contatti o possibilità, anche piccolissime, di muovere ancora passi comuni, in
una qualsiasi direzione, ma nell’attuale. La ormai riguardevole età (sigh!) che
abbiamo raggiunto quasi tutti noi ex-giovani-qualche cosa, comporta che incontri
forzati possano solo avere effetti negativi, che guastano i ricordi felici
ricoprendoli con immagini nuove, sconosciute, estranee perché non più
assumibili, elaborabili e fatte proprie dalla mente.
Vedere i volti di ex amici e compagni
di vita, di qualche vecchia fiamma, di riconosciuti maestri e riferimenti sulle
foto del 1972, ha avuto per me il senso di una risposta, mi ha dato l’indirizzo
cui rivolgere un vecchio appello all’innovazione, al cambiamento, al tener duro,
alla resistenza all’andazzo ed alle frasi tipo: “ma tanto così è, così va il
mondo, che ci vuoi fare”, o “dai, devi pazientare, succederà quello che vuoi
prima o poi”, inaspettatamente pronunziate anche da qualcuno che ritenevo mio
fratello o della mia stessa razza. I ragazzi puliti di allora sono oggi a pieno
titolo nel mondo, anche in posti di prestigio e di potere. Nei volti fotografati
allora ho riconosciuto amministratori pubblici e privati, Direttori di Banca ed
amministrativi, primari, giornalisti, ecc. di oggi. Io so che possono, se
vogliono, fare da baluardo contro il pressappochismo e l’appiattimento. Che
possono ridare speranza e capacità di manovra agli onesti. Possono (devono,
secondo me) alzarsi, stare dritti in piedi e comportarsi secondo la loro
concezione del Paese, della città, del mondo. Possono e devono gridarla forte la
loro interpretazione della vita, per migliorare al possibile le cose e diventare
una moltitudine di “angeli” e di riferimenti per la collettività. In modo
disinteressato, come quando erano “pescetti da cannuccia”, a scuola, non ancora
grossi tonni come adesso. E dovrebbero, secondo me, anche trovare il modo (un
circolo, un bar, un cineforum, un salotto privato, un pulman in gita perenne per
musei), per parlare tra loro, come in passato, per fare opinione, esprimere le
loro valutazioni degli eventi e delle cose attuali. Per dire la loro e
possibilmente farla contare qualcosa.
Raffaele Golia D’Augé