Morsamor

di Carla Perugini

 

Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres

Q. Horati Flacci Carmina, I, 4

In cima a una ripida altura, fiancheggiata da un doppio filare di pini e cipressi, si apre l’ingresso monumentale del camposanto, armonioso nelle sue colonne neoclassiche e nella distribuzione di edicole e cappelle delle più antiche famiglie della mia città, fra vialetti di cespugli odorosi e discrete presenze di roseti, ortensie e alberi ombrosi.

Appena dopo l’entrata, chi arriva, ansimante per la salita, trova sulla mano destra un sepolcro squadrato di pietra lucida e scura, poco elevato dal suolo e sormontato da un angelo d’ombra e di pianto, ammaliante nelle sue linee curve di stile liberty, che richiamano quelle delle lettere di un’iscrizione sobria e commovente a un tempo, su cui invariabilmente si posava il mio sguardo ogni qualvolta vi passavo dinanzi in direzione della mia cappella di famiglia.

Era più d’uno il motivo che mi spingeva a osservare, con curiosità ed emozione, quella tomba: la storia che elusivamente raccontava, un’antica storia d’amore e di morte, la giovane età dei defunti, ma anche l’incongrua presenza di fiori sempre freschi per chi era scomparso ormai da quasi un secolo. Chi poteva ricordarli ancora, e con tanto invincibile dolore? E quale nascosto dramma si celava dietro le reticenti parole dell’epigrafe? Esse dicevano:

«A Enrico Solimene, sposo novello, che un destino crudele strappò troppo presto dalle braccia dell’amata Lia, che inconsolabile volle seguirlo là dove le loro anime riposano unite per sempre. I genitori posero, a eterna memoria». Seguivano delle date, identiche per entrambi: 1895-1916.

Devo riconoscere che, superata la giovinezza con la sua autosufficienza, per me le visite al cimitero sono divenute un’abitudine familiare e serena. Esse non hanno nulla di macabro o formale, ma sono come dettate da un’onda della memoria, che, d’improvviso e come trasportata da un’incontrollabile mozione degli affetti, pretende di trovare sollievo accanto a quei nomi incisi nel marmo, che, a mo’ di riconosciuta metonimia, stanno al posto dell’intera persona. La familiarità dei nomi e dei cognomi, a volte coincidenti con quelli di chi è ancora vivente, lungi dal provocare scongiuri, fa sì che gli occhi, e lo spirito, si vadano abituando alla dimora del futuro (sempre più prossimo), immaginando le visite altrui, che un giorno –si spera- sostituiranno le mie.

Quella città dei morti, nella sua fissità pietrificata, è pur resa mobile dal continuo avvicendarsi dei nuovi arrivati e dall’ostinato lavorio degli uomini che strappano ancora spazio a Necropolis, superando le ingombranti pretese del passato, quando ogni famiglia con un nome da onorare erigeva smisurate cappelle gotiche o classiche, con pinnacoli e altari e gradini e statue, circondate da piante fiorite e serrate da cancelli in ferro battuto. Oggi, anonimi condomini a più piani ospitano centinaia e centinaia di sepolcri tutti uguali, fra cui è possibile orientarsi solo attraverso vere e proprie mappe e indicazioni di cartelli stradali…

Ignari di tutto, Lia ed Enrico, eterni amanti uniti in un funebre talamo, continuavano invece a godere dei privilegi del passato, quando tutto era ampio e generoso, anche gli spazi della morte.

Una mattina d’inverno fredda e luminosa, svegliatami prestissimo, giunsi al cimitero in un’ora così inconsueta da dover aspettare un po’ perché la fioraia aprisse il suo negozio. Gli uccelli cantavano fra i rami, e una prolifica famiglia di gatti si aggirava fra le tombe, raggomitolandosi al sole. L’assoluta mancanza di visitatori fece risaltare con maggiore evidenza la presenza di una donna inginocchiata dinanzi al sepolcro dei due giovani sposi, che stringeva fra le mani degli anemoni multicolori.

Non so cosa mi spinse ad avvicinarmi a lei, anzicché tirare dritto: certo, l’abituale attrazione verso quel mistero, unita alla curiosità di saperne di più, mi resero più audace di quanto non fossi, e mi incoraggiò a rivolgerle un saluto: -Buongiorno, signora!

Ella sembrò per qualche istante non udire. Teneva gli occhi chiusi, come presa da un ricordo così intenso da dar luogo a una visione, mentre le mani, coperte da fini guanti di pelle ricamata, stringevano al petto i fiori destinati a sostituire quelli nei vasi, non così vecchi, in verità, da meritarne l’esilio. Dopo un po’, tuttavia, si riscosse e mi guardò. Forse non è esatto dire che mi guardasse: le sue pupille chiarissime sembravano passarmi attraverso, come se la mia presenza fosse un ostacolo da perforare per vedere oltre. Era uno sguardo profondamente, assolutamente triste, di una tristezza di ieri, di sempre, di un passato infinito; eppure era lo sguardo giovane di una donna attorno ai vent’anni, in cui tuttavia sembrava essersi attardato il tempo, come in un dagherrotipo staccato dalle pareti di un salotto antico.

-Buongiorno-, disse infine quasi sospirando, come se parlare le costasse un’immensa fatica.

-Si sente male?-, le chiesi.

-No. O meglio, sì, ma è così da sempre-, mi rispose.

-So che le sembrerò indiscreta, signora-, le dissi-, ma trovarla qua mi spinge a chiederle notizie sulle persone sepolte in questa tomba, che mi ha sempre molto commosso.

Ella si sollevò da terra e mi guardò con un sorriso a fior di labbra, che aveva sottili e senza traccia di rossetto, ma che non bastò a colorirle il pallore del viso: –Le sono grata per la sua commozione, davvero. E la storia di questi due giovani la merita appieno.

Le assicurai che nulla mi avrebbe fatto più piacere che apprenderla dalla sua voce, ed ella prese a raccontare, sempre con quel tono basso e sospiroso, come di chi si trattiene per non scoppiare in pianto:

-Enrico e Lia furono come segnati dal destino ad essere uniti nella vita come nella morte: nati nello stesso giorno, da due famiglie amiche, vicine per nobili origini, mostrarono fin dall’infanzia il reciproco piacere di stare insieme, di condividere dapprima i giochi, poi gli studi, i gusti e la volontà indissolubile di dedicarsi l’uno all’altra per sempre. Le nozze furono il naturale completamento di un’esistenza (così breve, ahimé, così breve…) che si annunciava felice e prodiga di frutti generosi: il loro più vivo desiderio era che un figlio venisse a coronare quell’armonia di spiriti e di corpi, uniti dall’amore più sincero e dalle speranze più inebrianti.

Ma essi, come tutto il Paese, non sapevano di vivere gli ultimi bagliori di un’epoca bella e sventata, che stava per essere inghiottita da una guerra crudele, mattatoio di un’intera generazione di giovani. Neanche Enrico sfuggì al suo destino: ardito ufficiale di un reparto sull’Isonzo, egli fu vittima, con migliaia di suoi commilitoni, di una delle tante battaglie combattute fra l’Italia e l’Impero austro-ungarico. Cadde con onore in primavera, risparmiandosi l’onta della disfatta di Caporetto.

La notizia giunse come un fulmine a casa il 7 di giugno: Lia aveva appena saputo di essere incinta, e stava improvvisando con gioia un lavoro a maglia per il piccolo che portava in grembo. L’arrivo di una lettera del Comando della Seconda Armata non poteva che recare notizie funeste: ella l’aprì tremando e le bastò intravvedere quel nome amato in rilievo sulla pagina per accasciarsi al suolo priva di sensi. Accorsero la madre e una sorella: un medico, giunto di corsa, provvide a soccorrerla con sali e farmaci per il cuore, ma nulla valse a risollevarla dal parossismo in cui era caduta. Una febbre violenta la tormentò per giorni e giorni, durante i quali soffrì un aborto spontaneo.

Quando la vita e la giovinezza sembrarono riprendersi la rivincita, ella riemerse dal buio dell’incoscienza come da una tomba: ogni colore era sparito dal suo volto, mentre l’estremo dimagramento delle carni sembrava resistere a qualsiasi terapia ricostituente. La famiglia sperò invano che il tempo potesse mitigare la sua infelicità: Lia aveva un solo scopo, un unico progetto, quello di raggiungere in un altrove l’uomo della sua vita, che continuava ad apparirle in sogno coperto di sangue. E così volle assomigliargli in morte, come gli era stata simile in vita, tagliandosi le vene, perché anche il suo corpo fosse solo ferite e sangue, ultima sorte condivisa, se non per scelta, per rabbia e per disperazione…

Qui s’interruppe il racconto della giovane donna, che avevo ascoltato con la massima attenzione e trattenendo le lacrime. Accortasi degli anemoni che ancora stringeva fra le mani, si chinò bruscamente per infilarli nel vaso, facendone rovesciare l’acqua. Ebbe un moto come di stizza, a cui io cercai di rimediare offrendomi di andarle a riempire il vaso alla fontanella poco lontana. Prima di affidarmelo, come per evitare altri sbagli, si tolse i guanti. Fu la visione di un attimo: ai miei occhi apparvero i suoi polsi sottili, che immediatamente ritrasse, ma non così velocemente da impedirmi di notare le profonde cicatrici tutt’intorno, come corone di filo spinato. Ella distolse lo sguardo e si circondò il busto con le braccia, come cullandosi. Tremando, presi il vaso e mi diressi verso la fontana. Con difficoltà lo riempii e tornai indietro.

Sapevo che non l’avrei ritrovata. Sulla tomba deserta, ancora umida della rugiada della notte, gli anemoni esibivano, con intatto splendore, l’indifferente perseveranza della vita.

17 gennaio 2008

 

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