Racconti di Nonna

di Martino Forino
“beyond the sun

beyond the stars

there we’re gonna meet

beyond our lives”

 

 

 

 

Questi sono i racconti che nonna amava ripetermi e che io non mi stancavo mai di ascoltare nei lunghi pomeriggi invernali trascorsi con lei. Lei raccontava mentre lavorava all’uncinetto o cuciva a macchina, io bevevo una tazza di tè e mangiavo una prussianina che nonna comprava apposta per me.

I racconti erano sempre gli stessi, ma ogni volta si arricchivano di particolari nuovi, di nuovi colori e di nuovi odori. Chissà se col tempo anche nonna non abbia cominciato a confondere le persone, i luoghi o chissà quant’altro.

Chissà se la mia mente non abbia poi cominciato ad elaborare e ad arricchire i suoi racconti con quello che la mia fantasia di volta in volta mi suggeriva.

 
1. Tornando a casa…

 

Ne è passato del tempo. A questo pensavo mentre salivo sulla carrozza con Teresa, la mia bimba, stretta al petto, in un tiepido pomeriggio di primavera. La carrozza procedeva spedita lungo via Mancini sobbalzando sui lastroni di pietra lavica, per poi sbucare “fore ‘o largo” e da lì imboccare via dei due principati, giù giù fino al ponte della Ferriera. Da quelle parti la campagna che cominciava ad ammantarsi di verde prendeva man mano il posto della città, che si dissolveva in isolati casolari e ville nobiliari. Una serie di salite e discese e poi, finalmente, la carrozza entrava a Bellizzi, dove sono nata.

Mi riempiva sempre d’orgoglio tornarci e tornarci in carrozza.

Quante volte, da ragazza, avevo percorso quella strada fino ad Avellino, sempre a piedi, passo dopo passo, sotto la pioggia battente o nella calura estiva, stretta nel mio cappotto che la neve imbiancava o nel freddo vento autunnale.

Ma in primavera, era tutto diverso: la strada era fiancheggiata da biancospini in fiore e la campagna era di un verde tenero, brillante.

Teresa, intanto, si era addormentata sul mio grembo, dove già sentivo agitarsi un altro bimbo…se è maschio, lo chiamerò Giovanni, come il papà di mio marito.

Ecco casa di mia sorella Carmela e lì di fronte la segheria è aperta, se non mi sbaglio anche casa di Teresa mi sembra abbia le finestre spalancate: se mi resta un po’ di tempo passerò anche da lei. Dai bassi, lungo la strada, tanti si affacciano a salutarmi, e mia mamma è già sulla porta: sapeva che sarei venuta. Il sole al tramonto, che si fa strada tra i tetti bassi delle case, le indora i capelli e il suo sorriso è luminoso.

E’ bello tornare a casa.

Dovrei tornarci più spesso.

 

2. L’America

L’altro giorno le mie figlie Annamaria e Lucia sono tornate da un viaggio.

Ora ho tra le mani il foglio di un vecchio registro dove è annotato l’arrivo del mio papà in America, emigrante per qualche tempo. Non so bene come siano riuscite a ottenerne una copia, ma pare che lì a New York tutto questo sia possibile. Poche parole, scritte in una grafia appena leggibile, ma non ho dubbi, si tratta proprio di papà: tutto ritorna.

Quanti ricordi in questo pezzo di carta.

Non riesco a dimenticare lo sguardo triste di mamma, quando papà era lontano. Povera donna, aveva sempre da fare tutto il giorno con noi tra i piedi a complicarle la vita, ma lo spazio per la tristezza sembrava non mancare mai.

La vita procedeva sempre uguale a se stessa nei lunghi, lunghissimi periodi di assenza di papà, che di tanto in tanto ci inviava dei dollari e poche righe: ‘Sto bene. Mi mancate. Vi abbraccio forte’.

Un giorno, però, sapemmo che papà stava tornando. Allora mamma ebbe nuova luce e nuove energie: tutto doveva essere in ordine e noi, figli, tutti e sei ben lavati e vestiti. Non avevamo molto, ma l’ordine e la pulizia non dovevano mancare.

Eravamo tutti pronti a riceverlo, ma passò un giorno, poi due, poi tre…Ma quando papà sarebbe tornato?

Mamma continuava a ripetere che non potevamo saperlo con certezza…la nave, poi il treno, insomma non era possibile prevederlo. Ma nonostante ciò e nonostante i giorni continuassero a scorrere inesorabili, non perdeva l’entusiasmo né permetteva alla trascuratezza di prendere il sopravvento.

La polvere non aveva accesso alla nostra casa.

Finalmente, arrivò!

Quella sera nel letto stringevo forte la bambola americana che papà mi aveva portato e non riuscivo a prendere sonno.

Speriamo che non parta mai più.

 

3. Settembre ‘43

 

Notizie allarmanti si rincorrevano. Pareva che gli alleati fossero ormai sbarcati in Sicilia e che lentamente stessero risalendo la Nazione. Chissà se mai arriveranno ad Avellino.

Il quadro non era per niente chiaro. La sera, Gaetano, mio marito, si chiudeva con alcuni amici nella sala da pranzo e cercava di ascoltare alla radio cosa stesse succedendo. Purtroppo il segnale era debole, le notizie confuse ma sempre più allarmanti.

In città, i segni della guerra erano evidenti un po’ dappertutto: le lunghe file per le nostre razioni giornaliere con le tessere in mano; di giovani ce n’erano pochi in giro: tutti al fronte…sarebbero tornati? Chissà? Dio li aiuti e aiuti anche mio fratello disperso, Lui solo sa dove, in Sicilia o in Calabria.

Gaetano, grazie a Dio, non era dovuto partire: era stato impiegato al Distretto Militare di via Colombo.

Quella mattina di settembre “’ncopp’ ‘o Carmine” c’era mercato e avevo pensato di andarci. Teresa stava giocando al piano di sopra con la Signora Melchionna che mi dava sempre un grande aiuto; Giovanni dormiva nella sua carrozzina…forse forse una passeggiata fino al mercato mi avrebbe giovato, ma ero al settimo mese di gravidanza e quel giorno mi sentivo un po’ affaticata. Del resto in casa c’era sempre un gran da fare: riordinare, il bucato, il pranzo…a proposito di pranzo, devo chiedere a Gaetano di procurarsi qualche carbone: sono quasi finiti.

D’improvviso, uno scoppio, forte, assordante…che può essere? Anche i vetri stanno vibrando. Poi un altro, e un altro ancora, a ripetizione, sento gli aerei rombare bassi sopra i tetti…oh mio Dio.

La gente grida per strada, non capisco bene, mi pare di sentire che stanno bombardando…Gesù, Teresa dov’è? TERESA, TERESA… Gianni piange, lo prendo in braccio…non so che fare…giù la gente è terrorizzata, grida disperata: ci sono morti, crolli ovunque, anche i bambini…hanno ucciso anche i bambini. Le bombe continuano a cadere…TERESA, TERESA; TERESA…esco sul balcone: i boati continuano, gli aerei mi assordano. Dio mio, il distretto…che ne sarà del distretto?…penso a Gaetano e continuo a chiamare Teresa…Lì all’angolo di via Verdi un soldato pare che mi voglia dire qualcosa: gesticola, ma non sento, non capisco. Ma che vuole? Vuole che entri in casa, che è pericoloso? Ma va’ al diavolo!

Gli occhi mi bruciano per la polvere, non riesco a vedere bene. Gianni continua a piangere: non si calma, non mi calmo.

Dietro al carcere, vedo sbucare…sì, sì, è lui, Gaetano sta correndo qui. Grazie al cielo è salvo: sta venendo a casa. Corro giù per le scale, ma… non trovo Teresa, dov’è Teresa?

Teresa era nello scantinato. La signora Melchionna era corsa a ripararsi lì e aveva portato Teresa con sé.

Ora eravamo tutti su un carretto tirato da un mulo diretti a Lapio, dove saremmo rimasti per un po’…forse al sicuro.

Che la mano misericordiosa di Dio ci sostenga tutti.

  

 4. E ora?

 

Le cose capitano sempre quando meno te l’aspetti. All’improvviso gli eventi ti travolgono e da un momento all’altro ti ritrovi in una vita che non è più quella di ieri, che non è più la tua.

Dopo Teresa, Giovanni e Lucia, il buon Dio aveva voluto benedire il nostro matrimonio con l’arrivo di Annamaria e di due gemellini, Luigi (che tutti chiamiamo Gino) e Rosalba.

I tempi durante e dopo la guerra erano stati tutt’altro che facili, ma con stenti, sacrifici e tanta forza di volontà, io e Gaetano eravamo riusciti a procurare ai nostri figli una vita serena e dignitosa.

La sera ci sedevamo tutti intorno al nostro tavolo per la cena: Gaetano a capo tavola di fronte a me con Teresa al suo fianco e Gino sulle gambe; Annamaria e Lucia su un lato; Giovanni sull’altro vicino a Teresa e Rosalba accanto a me, ché come Gino aveva ancora bisogno di essere imboccata.

Eravamo allegri, felici.

Un brutto giorno, però, mentre sbrigavo delle faccende in cucina, sentii Gaetano chiamarmi dalla camera da letto. La voce non era quella solita, ma rauca, sforzata…sembrava chiedere aiuto. Corsi di là…Gaetano ci aveva lasciati.

 

Il dolore non ha parole.

 

Ci aveva lasciati da soli, soli senza un lavoro, e senza lavoro dovemmo abbandonare la nostra casa. Mi aveva lasciata sola, sola con i ricordi di una vita insieme breve, troppo breve. Teresa aveva solo 9 anni.

Tornai a Bellizzi dalla mia famiglia, ma stavolta non c’era una carrozza che ci avrebbe riportati ad Avellino.

Quante lacrime versate in silenzio, di nascosto, quando il dolore mi stringeva il cuore e la disperazione mi sembrava grande.

Ma, il Signore è ancora più grande e un po’ per volta le cose cominciarono ad andare meglio. Fui impiegata come bidella all’istituto Magistrale di Avellino “sotto i platani”; mi fu assegnata una casa, piccola ma accogliente. Potevo scegliere tra un appartamento a via Roma e uno a Rione Mazzini e mio fratello mi consigliò quello di rione Mazzini, perché era più vicino a Bellizzi e a tutti loro. Avessi scelto quello di via Roma, ora sarei stata proprio in centro.

I miei figli sono cresciuti e ciascuno ha trovato la propria strada. Teresa è diventata maestra elementare; Giovanni si è arruolato ed ora vive a Parma; Lucia è infermiera e Gino si è impiegato al Genio Civile. Sono riuscita perfino a pagare gli studi di Annamaria e Rosalba che si sono laureate a Napoli. Annamaria insegna francese e Rosalba lavora al tribunale.

Sono loro, i miei figli, il mio orgoglio, il bel risultato di tanti sacrifici.

Certo, avrei voluto fare di più per ognuno di loro, ma quel che ho dato era tutto quello che potevo, tutto quello che avevo.


 

5. 23 Novembre

 

Era stato un pranzo della domenica frettoloso e agitato, come ormai sempre accadeva, quando L’Avellino giocava in casa. Quella domenica c’era Avellino-Ascoli, non una sfida particolarmente importante come quando veniva la Juve, L’Inter o il Milan, ma era pur sempre l’Avellino a scendere in campo in una sfida di serie A.

Nonostante la partita, mi ero comunque alzata presto quella domenica per preparare il ragù, friggere le melanzane per la parmigiana…ah, le polpette, quelle non potevano mancare. E meno male che avevo fatto i fusilli il giorno prima.

Nel primo pomeriggio, dopo aver finalmente sistemato la cucina, mi ero seduta al mio solito posto dietro la finestra della sala da pranzo…ero un po’ stanca e non avevo voglia di cucire a macchina, anche se c’erano molte pieghe da fare e il vestito per Annamaria bisognava solo di un paio di cuciture per essere finito. No, non avevo voglia di cucire, e perciò mi ero messa a lavorare un po’ all’uncinetto, alzando di tanto in tanto lo sguardo verso Montevergine indorata dal sole al tramonto.

Era ormai buio, le sette e mezzo circa. Da sola mi godevo la tranquillità della casa: Annamaria era andata al cinema e forse non avrebbe voluto cenare al suo ritorno, per cui non mi ero preoccupata nemmeno di preparare la cena.

Un boato, un rumore incredibile. Il pavimento si rigonfiava come un mare in tempesta sotto i miei piedi, i vetri sembravano andare in frantumi e il lampadario toccava il soffitto. Cercavo di camminare, ma non riuscivo ad avanzare: i soprammobili cadevano e le ante della credenza si spalancavano lasciando cadere piatti, tazzine e bicchieri. Tentavo di raggiungere la porta calpestando frammenti di vetro, per le scale sentivo gli abitanti della palazzina correre giù gridando.

Il terremoto fu devastante. Solo ad Avellino, appresi poi, c’erano stati quasi 300 morti.

E’ passata un’ora da quando sono uscita di casa, e il cuore ancora mi batte forte in petto. Annamaria è tornata, affannata, ricoperta di polvere, con gli occhi rossi pieni di lacrime di disperazione. C’è polvere, tanta polvere: una nebbia densa impenetrabile sembra avvolgere la città. La gente lentamente, avvolta nei cappotti, nelle coperte e negli scialli sale qui a rione Mazzini. Si sente dire che il centro storico è distrutto: il Carmine, via Cascino, Sant’Antonio sono un ammasso di macerie e dolore. Si ha notizia di feriti, di morti, tanti non si sa dove siano. Molti mi chiedono se stanotte possono ripararsi nel mio portone: la temperatura è gelida e non hanno più casa: le loro auto sotto le macerie, bloccate nei garage.

Non c’è più corrente, le linee telefoniche interrotte, l’illuminazione pubblica è saltata, ma almeno una grossa luna bianca rischiara i nostri volti pallidi, atterriti.

Ecco, vedo arrivare la 850 blu di Tonino, mio genero. Si ferma a pochi metri dalla mia casa, dall’auto scendono anche Teresa e Martino.

Martino mi corre incontro e mi abbraccia, poi abbraccia la zia. E’ contento di vederci e non capisce il nostro spavento. Sorride e anch’io riesco a sorridere.

Anch’io sono felice di vederlo, solo Dio sa quanto.


 

  5. 14 marzo 2009

 

Nonna se n’è andata serenamente, in pace con sé e con il Signore, una notte di Marzo. Aveva 94 anni.

La sua famiglia, il suo bene più prezioso, era tutta lì raccolta in silenzio, in preghiera, ad accompagnarla nel suo ultimo viaggio.

Sono certo che ci ha visti e vedendoci avrà sorriso. Il suo sorriso semplice, genuino, sincero…di altri tempi. Il sorriso trasparente e luminoso di chi ha sofferto, ma ha stretto i denti e ha continuato la sua strada, trasportando con fiducia e coraggio la croce che Dio aveva voluto donarle.

In quel momento, con le grandi ali della sua anima ci ha avvolti in solo caldo abbraccio.

Quell’abbraccio non ci ha lasciati più, continua a scaldarci il cuore e continuerà a farlo finché anche noi ci ritroveremo un giorno lì oltre le stelle, tutti di nuovo insieme, per sempre.

Quella notte indossava il vestito che aveva comprato per il mio matrimonio. Quando glielo ho visto addosso, l’ho subito riconosciuto e ho pensato:

‘Era per un giorno di festa

Sarà ancora festa’.

E così voglio credere che sarà.

 

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