LA NOSTRA STORIA, DAI LONGOBARDI AL NOVECENTO

di Franco Festa

Alla fine della lettura del bellissimo volume di Armando Montefusco: “Avellino, immagini per una ipotesi di storia urbana”, Sellino editore,  euro 35, ci coglie una fierezza e una malinconia. Sentimenti apparentemente contrastanti, ma che trovano una felice sintesi nella bravura e nella misura di Montefusco. Egli ci guida attraverso un cammino di luce e uno d’ombra. La straordinaria storia della città, sconosciuta ai più e descritta con sensibilità e finezza dell’autore, sono la parte di luce, che egli tratteggia con la precisione di un pittore, rendendola chiara , visibile; lo stato attuale della città, rispetto a ciò che è stata, alla grandezza che ha vissuto, alla difesa della propria identità  che ha caratterizzato gli abitanti per centinaia d’anni, fino alla resa del ‘900, è la parte d’ombra, che egli non nasconde, ma raccoglie con garbo doloroso in rapide parole, in piccole pennellate. Si esce arricchiti e diversi, alla fine.

Montefusco non pretende sacrifici insormontabili dal suo lettore. Poco più di 120 pagine, con illustrazioni, foto, ricostruzioni, disegni, piante, assemblate con impareggiabile bravura dall’editore Sellino, danno luogo innanzitutto a un libro bello da sfogliare, da toccare, da odorare, com’ era già accaduto per l’opera recente sul Duomo di Avellino dello stesso autore. Eppure, guai a pensare che si proceda per sintesi arrangiate, per salti e semplificazioni. Nel libro c’è tutto ciò che serve, a un ragazzo o a un adulto, per conoscere a fondo la storia della propria città, la vita, i rumori, le persone, le strade, i luoghi visibili e invisibili, ancora esistenti o per sempre cancellati. Una specie di guida da tenere stretta, un libro perfetto da adottare come testo ausiliario a scuola, ad esempio, o da regalare. E i fortunati che avranno la possibilità di visionare il supporto multimediale costruito da Montefusco insieme al mirabile, instancabile professor Geppino Del Sorbo- non è attualmente in vendita – che descrive, con animazioni bellissime, la vita della città nei vari passaggi storici, saranno conquistati dalla precisione dei particolari, dalla vivezza delle scene. 

Qual è la chiave adottata, per rendere il libro così appetibile? E’ quella del viaggio dentro la città. Periodo per periodo, Montefusco prende per mano un ipotetico viaggiatore in arrivo ad Avellino e lo accompagna- ci accompagna- per le strade, i luoghi sacri, le piazze, i vicoli. Ed Avellino rivive, risuscita dall’oblio. E con lei gli avellinesi, i loro mestieri, le industrie, la loro vita associata, le forme politiche e sociali che la città si è data volta per volta. Dunque, la storia urbana  non come arido trattato, ma come relazione tra le case e gli abitanti, tra le forme e quelli che a esse danno vita. Partiamo da lontano, dall’Avellino longobarda, nei secoli X - XI. La città era solo la collina della Terra, con le sue porte, le strade, su tutte la “Campanina”, e la piazza pubblica, subito fuori le mura, quella che sarà poi la piazza della Dogana, dove confluivano tutte le principali vie. Chi abitava questi luoghi? Ecco le precise parole dell’Autore (pag. 15):”Una comunità multirazziale, già integrata, dove, oltre all’elemento indigeno, c’erano non solo i vincitori longobardi ma anche i “vicini” bizantini, che con i longobardi si erano contesi la supremazie nell’Italia meridionale”. Badate alle parole: comunità multirazziale, quasi a definire uno stile, un modo di essere, un’apertura mentale alla tolleranza e al dialogo. Così eravamo, nell’anno Mille.

Nei secoli successivi, dal dodicesimo al tredicesimo, Avellino conosce la dominazione normanno-sveva. Lo sviluppo urbano è caratterizzato da una seconda cerchia muraria, che include la Piazza Pubblica, con la porta di S. Antonino, all’altezza dell’attuale palazzo vescovile, e la costruzione, fuori le mura, del castello. Nel Largo –oggi Piazza Libertà – trova posto il primo ospedale cittadino e la chiesa e il monastero di S. Francesco, fondati dal santo o da un suo discepolo nel 1222. Essa fu, per secoli, il centro della vita religiosa, l’elemento caratterizzante la città,  fino a che, nel 1939, non fu abbattuta tragicamente dal piccone fascista. Chi erano, allora, gli avellinesi? Afferma vividamente Montefusco:“ La presenza di una classe imprenditoriale intraprendente, la ricchezza d’acque della nostra regione, la formazione di maestranze specializzate, favorirono lo sviluppo di opifici, mulini e ferriere”( pag. 45) mentre “ la città tendeva a stratificarsi su tre livelli insediativi, a cui corrispondevano tre ben distinte classi sociali. Sul primo, quello più alto, risiedevano le autorità civili, militari e ecclesiastiche. Sul secondo, quello dei borghi, si andava insediando prevalentemente la classe dei commercianti. Nel suburbio, infine, si delineava quel quartiere popolare, abitato da operai, artigiani, mugnai e vatecali, che lo avrebbero contraddistinto per tutta la sua storia fino al terremoto del 1980, quando venne irrimediabilmente distrutto”. Ancora parole chiare, ancora luoghi vivi, ancora una città  in fervida attività.

Come è a tutti noto, Avellino raggiunge il suo massimo splendore a partire dal Seicento, quando diventa principato ed è governata dai Caracciolo. Dopo la crisi del Trecento, dopo la lenta ripresa nel Cinquecento, con i bagliori della marchesa Maria de Cardona,  la città è sede di uno straordinario sviluppo industriale, con l’arte della lana e quella molitaria a fare da traino alle innumerevoli attività artigiane che si sviluppano per strade e borghi, e con una nuova dignità architettonica e nuove splendide porte, Porta Napoli e Porta Puglia. Il suggello di questo fervore è la Dogana, splendida creazione di Cosimo Fanzago, e il Castello, con la vita della corte, frequentata da intellettuali e da pensatori illustri ( l’Accademia dei Dogliosi, Basile, Marino, Milton, per fare qualche nome). Infine, ecco il lustro della Casina del Principe, con il suo meraviglioso parco- giardino che si estendeva dalla collina dei cappuccini fino alla “Scrofeta”: una delle meraviglie del regno. E gli avellinesi? Erano lì, a S. Antonio Abate, a “via delle tintiere”, a “vicolo delle fornelle”. Osservate i nomi: risuonano di attività vitali, di operosità industriale, di popolo attivo. Il Seicento è, senza dubbio, il luogo del perfetto equilibrio tra la struttura urbana, i suoi abitanti, il suo principe.

Nel Settecento, e fino all’unità d’Italia, la città vive una concreta trasformazione. Da una parte una frenetica attività edilizia, con l’espansione verso occidente, in direzione di Napoli, dall’altra la formazione di una borghesia sempre più opulenta e poco ricettiva alle novità delle idee illuministiche. Il vero passaggio avviene però nell’800, quando Avellino diviene capoluogo di provincia e conosce un radicale sconvolgimento delle antiche funzionalità. “ Alla “vita di piazza”- sottolinea l’autore ( pag. 82) – legata alle attività produttive dei commerci, della finanza e dell’artigianato, si andava sostituendo la “vita di toga” incentrata sulla burocrazia e su quei servizi peculiari della città capoluogo”. Il viaggiatore immaginario, che arriva dal viale dei Pioppi, trova nella Piazza il cuore urbano, con la bellezza dei suoi luoghi civili e religiosi, la chiesa di san Francesco, l’ex convento dei Domenicani, i nuovi palazzi della borghesia, e Palazzo Caracciolo, la nuova sede della corte. Lo spostamento del principe verso il “Largo”  produce una lenta decadenza del vecchio centro storico, che si accompagna alla crisi dell’arte della lana e dell’ industria legata ai mulini. “ Rampa Tofara, rampa della Soppressa, le Gradelle dei miracoli.. che fino al Settecento avevano rappresentato la dignitosa ubicazione popolare di una classe sociale laboriosa, si trasformarono in quartieri fatiscenti, afflitti da una impietosa miseria”. Un quadro ancora una volta chiaro, preciso, con una punta di malinconia, com’è nelle corde di Montefusco.

Non ci soffermeremo molto sul Novecento, per motivi di spazio e per non guastare la sorpresa al lettore: oltre che, diciamolo con sincerità, per abbreviare la nostra sofferenza sulla descrizione dei guasti memorabili e irreversibili, come mai era accaduto prima, prodotti da una sciagurata borghesia specie nella seconda metà del secolo. Non vi è più che uno scarso legame, deformato, straziato, tra ciò che siamo stati e ciò che siamo. Montefusco non tace, non nasconde lo sfascio. Lo tratta con il suo solito stile apparentemente  sommesso, ma di fatto perentorio, senza infingimenti e abbellimenti. Terminiamo proprio con le sue parole, invitando ancora tutti a leggere ed amare questo libro indispensabile. “ All’indomani del terremoto…. una indefinibile strana malinconia assalì molti. Strana, perché questi quartieri ( S.Antonio Abate, S. Leonardo, Fornelle, Fossa S. Lucia) erano appena sfiorati, se non addirittura evitati, dai nostri abituali itinerari; qualcuno aveva persino rimosso dalla mente il ricordo di nonni e parenti che avevano abitato quei luoghi…Allora ci si rende conto del perché di quella malinconia. E’ la coscienza delle proprie radici che riaffiora, prive di blasoni, caratterizzate da sacrifici e miserie, di cui non ci deve vergognare”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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