'O spasso

di Pino Bartoli

 

Dotazione fondamentale per chi andava al cinema era ’o spasso, e cioè i bruscolini. I soldi che si risparmiavano scegliendo la galleria invece della sala finivano in semienti. Servivano per scaricare la tensione nei momenti cruciali della proiezione, ma dovevano essere freschi, ben tostati e salati al punto giusto.

Sono queste le caratteristiche fondamentali per tirare  fuori, con la lingua, il frutto dopo aver aperto il guscio stringendolo delicatamente tra incisivi superiori e inferiori. Il seme vecchio o poco tostato non si apre anzi si sponza a contatto con la saliva e sulla lingua ti resta il sapore del sale. Se è troppo tostato la minima pressione dei denti lo frantuma e ti ritrovi in bocca pezzi di seme e di guscio e sei costretto, imbarazzato, a sputacchiare tutto tra il disappunto di chi ti sta vicino.

I semienti migliori li vendeva nei pressi del Cinema Umberto Pasquale ‘e Rosina. Rosina era la sorella,  seconda moglie di Filuccio (Raffaele) ‘o cucchiere. Pasquale, chiamato anche ‘o Cinese per i suoi caratteri somatici, abitava con sorella e cognato in un basso  areto ‘a dogana  in via Strettola della Corte, proprio dietro il cinema, dove metteva ad asciugare i semienti tra le carrette di sua proprietà che fittava  a chi doveva fare un trasloco o trasportare qualcosa di  pesante da una parte all’altra della città.

I soldi che guadagnava con le sue attività imprenditoriali Pasquale  li portava  all’osteria vicino casa sua o ‘a cantina e zi’ Monaco o vic’ a neve scatenando le ire di sorella e cognato che lo ospitavano e che, quando faceva tardi, gli facevano trovare la  porta chiusa e lui, per non disturbare,  passava la notte tra i sciusciuli, (trucioli) che servivano per alimentare il forno del pane che stava lì vicino, a vicolo secondo conservatorio, vicino al basso ‘e Melella a scigna. Pasquale, dunque teneva negozio a Piazza Centrale proprio davanti al cinema. Se però Genoveffa, la moglie del sagrestano del Duomo, scendeva a vendere ‘e verole  (caldarroste), lui  spostava l’esercizio sul marciapiede di fronte, tra il bar De Lellis  e la Farmacia del dottore Amodeo. Per misurare la giusta quantità di prodotto usava una scatola di cromatina proprio come faceva Maria ‘a sementara conosciuta pure come Maria ‘a cecata  per via della benda di panno nero che le copriva il vuoto dell’orbita destra. Maria, che si metteva all’angolo della prefettura lungo il percorso degli scolari del  Palazzotto, aveva perfezionato l’attrezzo facendo saldare i fondi di coperchio e corpo della scatola e utilizzando la parte con i bordi bassi per misurare 5 lire di semienti e la parte fonda 5 lire di ceci abbrustoliti, più voluminosi e che in tutta Avellino vendeva solo lei. A Maria preferivo Ameriga che vendeva davanti al  Partenio. Si presentava meglio, tutta aggiustatina e truccata,  come quando, secondo qualcuno, faceva i servizi nelle case chiuse della vicina via Campane. Con la legge Merlin aveva perso  il lavoro. Faceva la sementara per sopravvivere. Salendo poi verso la villa e il cinema Eliseo, si trovavano i Barracane,  il padre e il figlio. Loro avevano una carrettella ben attrezzata, con le ruote di gomma, che consentiva l’esposizione e la vendita di vari prodotti, tra i quali  i lupini. Da quelle parti il  bancariello con le ruote lo avevano  pure Vincenzo e Gerardino. Quello di Vincenzo era di colore verde e vi si poteva leggere scritto con lettere  bianche  bordate di rosso:  da Vincenzo cocco fresco. Gerardino, rampollo di una famiglia di aulivari, aveva  invece una semplice carretta che utilizzava per vendere fichi d’India.  Lo trovavi in tutte le feste che si tenevano nei paesi del circondario. Ad Avellino stazionava  nello slargo della Villa, dove ora si trova l’edicola.

Tra tutti, comunque, giganteggiava Nicola ‘o razzi muzzo uomo buonissimo che non rifiutava mai una nocciolina americana che tostava e vendeva caldissime con la sua bancarella-tostatore. Quando erano pronte apriva una valvola di tenuta e l’aria calda della camera della tostatura passando attraverso una serpentina azionava un fischio che da fore ‘o largo, dove stava, arrivava fino alla villa grazie anche all’inesistenza di traffico automobilistico. Era il segnale che aspettavamo, si correva da Nicola che con quattro soldi ti riempiva le tasche di nucelline americane cavire cavire che ti consentivano, specialmente nelle fredde sere d’inverno, di prolungare lo struscio per il Corso fino all’ora di cena. Il fischio di Nicola era per Avellino come il suono del Big Ben per Londra, del carillon dell’orologio del Municipio per Praga o delle martellate di quello dei mori per Venezia. Non era nobile e puntuale come quelli, poteva anticipare o ritardare ma, a differenza loro, ti assicurava il caldo il semplice e il saporito di una città unica e amatissima.  (pb)  

 

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