VIAGGIANDO  NELLA STORIA DEL  "FENESTRELLE"

 

di

Armando Montefusco

 

Amarcord

 

E' ancora vivo in noi il ricordo di quando ,bambini, ci si "tuffava" nelle acque limpide del Fenestrelle , spesso , suscitando l'ira delle lavandaie che a "valle" ricevevano le acque torbide. Molti ricorderanno le lunghe passeggiate , a piedi nudi, nelle vecchie palate in tufo costruite parallele al corso del fiume.

Oggi i rovi e le ruspe hanno coperto o distrutto questo mondo, per cui solo di tanto in tanto , chi si avventura per certe stradine può ancora scorgere qualche vecchia "palata" o qualche filare di pietra bianca dove le lavandaie strizzavano i panni. Sono solo un ricordo le acque limpide brulicanti di girini , che si muovevano nervosamente in una maniera per noi incomprensibile , che tuttavia tanto ci affascinava.. Persino le temute sanguisuge , panacea

dei nostri vecchi cerusici, sono scomparse; le ultime bisce nere, orride ma innocue, si sono rifugiate verso il corso alto del fiume. Era uno spettacolo meraviglioso quello delle libellule dai variopinti colori, che, volteggiando come piccoli elicotteri, si lanciavano inesorabili sulle prede che affioravano sull'acqua. Lungo i bordi del fiume , a far bella mostra di sé , i frutti dell'Arum Maculatum, dalle belle bacche rosse riunite  a grappolo. Ben note per la loro veneficità , nella fantasia popolare, si erano trasformate nel pasto prelibato delle vipere.

Potrà mai rivivere "questo mondo" ?... Proviamoci !

                                      

 

Riflessioni…

 

Per circa un millennio la "Fondovalle del Finestrelle” " ha rappresentato il luogo dove fervevano le principali attività economiche cittadine.

 La grande intelligenza e perizia con cui i nostri padri erano riusciti a convogliare ed incanalare le esigue acque del fiume , animarono opifici che già nel secolo XI ebbero dignità di vere e proprie attività proto-industriali. E non ci riferiamo  solo ai mulini ; quando nel XIII secolo la forza idraulica venne applicata alle soffierie a mantice per alimentare i forni metallurgici e  si andarono sviluppando quei particolari opifici detti "Ferriere" , Avellino, fu tra le prime città ad avere le sue "Ferriere".

Nei secoli si affermò una maestranza fortemente specializzata nella gestione tecnica di macchine idrauliche ; il che facilitò molto l'affermazione di altri tipi di opifici quali Gualchiere , Tintiere, Cartiere etc.., tutti collegati fra di loro da un elemento comune: l'acqua.    

 Conservare e soprattutto valorizzare tutto ciò che può ricordare questo "mondo" è importante  , è un segnale forte di  sensibilità , di rispetto, di conoscenza delle proprie radici.

 Non vorremmo , comunque, che nell' entusiasmo del risanamento ci liberassimo, è il caso di dirlo,  dell'acqua sporca e del bambino . Ci incammineremmo per una strada senza ritorno. Anche se può sembrare assurdo ,  si rischierebbe , a nostro avviso, di procurare danni maggiori dell'incuria  e dell'indifferenza .

Sarebbe quindi auspicabile che un” progetto di risanamento del fondovalle Finestrelle” ,oltre alla fondamentale partecipazione dei "tecnici",   si arricchisse del contributo , di quanti , con competenze diverse , si sentono coinvolti  nella sua realizzazione.

Per quanto ci riguarda desideriamo.proporre all'attenzione del lettore alcune riflessioni , che, a nostro avviso, possono aiutare a riscoprire ed amare questo "piccolo mondo antico", che è qualcosa di più di un semplice "Parco".

 

 

                                  Perchè lo "strano" toponimo : Fenestrelle ?

 

Il toponimo Fenestrelle è fra i più antichi  della nostra regione, che ancora oggi si conserva; difatti lo troviamo citato ua prima volta nell’851 , quando furono stabiliti i confini geografici fra i principati di Capua ,Salerno e Benevento:.. Inter Beneventum et Capuam sit finis ad Sanctum Angelum ad Cerros (Valle Caudina) et perexiens per serrram Montis Virginis usque in loco qui dicitur FENESTRELLA . Inter Beneventum et Salernum sit finis in loco qui dicitur ad Peregrinos etc... . La località “Fenestrella” citata nel documento , corrisponde all’attuale “Colle di Faliesi” (m.576) , situata tra il monte Esca (m.880) ed il monte Faliesi (m.955). Chi da una posizione favorevole (Mercogliano)  volge lo sguardo verso il suddetto colle , può scorgere i monti del “salernitano” , in tal modo esso appare come una “finestra” attraverso cui lo sguardo corre verso altri orizzonti. Spesso questo toponimo è stato utilizzato in situazioni analoghe ed ancora oggi le “finestre” rappresentano intagli che interrompono la continuità di una catena di monti.

Attualmente solo una piccola regione campestre a valle del colle di Faliesi, sita tra Monteforte ed Avellino, conserva ancora questo toponimo. Le sorgenti del “nostro” fiume si trovano proprio in questa regione , per cui ad esso è stato attribuito il nome di “Fiume Fenestrelle”.

Nel suo primo tratto ,lungo la valle, esso riceve il contributo di diversi ruscelli , fra cui quelli generati dalle sorgenti perenni dell’Acqua del Sambuco e  dell’Acqua del Paradiso. Poco prima di immettersi nella fondovalle , riceve il contributo piuttosto cospicuo del “Rivus Vairanus” (Rivarano) proveniente da Mercogliano. Quest’ultimo , all’altezza dell’attuale svincolo autostradale di Avellino Ovest, riceve le acque del torrente Iemale (ad acque invernali)  proveniente da Monteforte  in cui confluiscono le acque del monte Carafone.

Dopo aver percorso ,quindi, circa 4 chilometri nella “Valle” , il Fenestrelle , con una discreta portata (e finalmente inquinato) , inizia il suo lungo itinerario nella “Fondovalle”. Qui il fiume inizia il suo corso nella Contrada Infornata ed attraversa le zone dette : Macchia- Esca dell’arciprete (Contrada Zigarelli) - Starza (alle spalle di Via Matteotti). In prossimità dell’antico borgo di Avellino, riceve le acque di ruscelli provenienti da contrada Chiaira e Castagno di S. Francesco. All’altezza di Porta Puglia (Via F. Tedesco) , nel Fenestrelle confluisce il Rio Cupo. In prossimità della località detta Puntarola riceve l’affluenza delle acque provenienti dal Rio S. Oronzo e dal fiume d’Aiello.

Da questo punto, dopo aver percorso altri 4 chilometri nella Fondovalle, il Fenestrelle scorre in una nuova condizione geografica caratterizazta dalla valle del Sabato. Qui il fiume dopo aver percorso altri tre chilometri , termina il suo corso immettendosi nel fiume Sabato nei pressi della località detta Pianodardine.

 

                                         

                                    Recupero dei "canali artefatti"

Premessa storica

Il complesso idrografico che caratterizzava la conca avellinese, malgrado le modeste dimensioni dei suoi torrenti , grazie ad un progressivo ed intelligente intervento dell’uomo, venne strutturato in un sistema tale da permettere una efficiente e razionale utilizzazione delle acque a scopo sia irrigativo che industriale.

Le acque opportunamente raccolte venivano convogliate in canali artefatti i cui argini erano protetti da pali di legno (da qui il termine di “palata” che troviamo negli antichi documenti)  , solo più tardi , essi vennero sostituiti da costruzioni in tufo.

Un complesso sistema di canalizzazione ,a servizio di tutti gli opifici sorti lungo il corso del Fenestrelle, prendeva inizio dalla parte più alta della fondovalle , nei pressi dell’attuale Torette di Mercogliano (Plaiora = Piano Maggiore). In questa zona il fiume prendeva il nome di “Flumen Fornata” e la regione “Aqua Formata” , con l’evidente riferimento alla presenza dei canali (Formis=canale). Questo antico toponimo (secolo. XI)  ancora oggi si conserva,  in quello di “Contrada Infornata”.

 Le acque del Fenestrelle , opportunamente arricchite dal contributo di altri ruscelli, dopo essere state incanalate a servizio delle  botti idrauliche del  “Mulino dell’Infornata” e del “Mulino della Macchia” , continuavano il loro flusso nel corso naturale del fiume. All’altezza dell’Isca dell’Arciprete (Contrada Zigarelli) esse venivano nuovamente incanalate e convogliate alla botte idraulica del Mulino della Ferriera . Da qui la canalizzazione procedeva lungo tutto il suburbio cittadino ( Contrada  Fornelle , sempre da Formis= canale) ,  dove in serie si trovavano altri tre  mulini: S. Antuono-Molinelle- S. Spirito, oltre  alle Gaulchiere, Tintiere e altri opifici il cui ciclo lavorativo coinvolgeva l’utilizzazione dell’acqua . Solo all’altezza di “Porta Puglia” le acque fluivano nuovamente nel corso naturale del fiume

 Lungo il corso delle “palate” , mediante opportune paratie, era possibile convogliare le acque anche lungo canali  utilizzati a scopo irrigativo o  per alimentare vasche di deposito (Pile)  o lavatoi  etc.. .

Proposta di interventi

Un preziosissimo documento conservato nell'Archivio di Stato, redatto con grande accuratezza, ci ha consentito di ricostrure tutta la rete di canalizzazione che animava i vari opifici  dislocati nella fondovalle del Fenestrelle. Il documento è una perizia ordinata dal tribunale civile di Avellino, in occasione di una vertenza tra la principessa di Avellino ,Eugenia Doria Panfili, vicaria del marito Don Marino Caracciolo, e il sig.  Ambrogio Parisi , sullo stato in cui si trovavano , dopo il fitto di cinque anni (1830-1835), i seguenti mulini: Infornata- Macchia- Ferriera- S. Antuoni- Mulinello- S. Spirito- Puntarola- Pianodardine- Atripalda.

Sulla scorta di questa perizia è stato possibile approntare una "mappa di canalizzazione" , che potrebbe servire da guida per un recupero di queste opere , le quali - è opportuno sottolinearlo- sebbene presentino ristrutturazioni relativamente recenti  ,nella loro dislocazione "strategica" ripropongono una condizione operativa ideata già mille anni prima.

La fondovalle infatti si presentava e si presenta come un "piano inclinato" che da Torrette di Mercogliano si sviluppa fino a Pianodardine con una pendenza ed un andamento di quote  tale che già mille anni prima era stato intelligentemente e con pochi accorgimenti, utilizzato per l'alimentazione dei più svariati opifici.

In definitiva questa "opera di canalizzazione"   , proprio per le condizioni storiche in cui venne concepita, rappresenta un vero capolavoro di ingegneria da valorizzare e conservare con orgoglio, per le generazioni presenti e future. 

 

                                                 

                                         

                                             La "portata" del fiume

 

Il "Torrione" rappresentava il fulcro di regolazione del flusso d'acque , che veniva inviato ai mulini. Esso era in parte scavato in una rupe di tufo nero ed in parte cinto da mura ed aveva una profondità di circa 15 metri con un diametro di circa 14 metri.

Sul fondo diverse sorgive provvedevano al carico d'acqua. Da una galleria sotterranea , il flusso d'acque, regolato da una apposita "Paratia" , veniva inviato ad una palata (canale) esterna., la quale oltre le acque del Torrione , riceveva anche quelle provenienti dalla "Fontana della Marchesa" (la Marchesa M. de Cardona sec.XVI )  e quelle provenienti dalla "Palata dello Scrivano" , che raccoglieva  a sua volta le acque del Fenestrelle.

Dopo il terremoto del 1980, la sorgente detta "Fontana della Marchesa" è "scomparsa". Essa si trovava ,nel vallone, in corrispondenza del ponte della variante di Torrette di Mercogliano. Le abbondanti acque di questa sorgente - un vero "occhio di mare" dicono i nostri contadini- erano purissime , tanto che si pensò addirittura al loro "imbottigliamento".  

Il Torrione esiste ancora, sebbene ricoperto di rovi, e si trova nei pressi del "villagio Rivarano" ; sul fondo , una volta raggiungibile da una scaletta in legno, si intravvede ancora la polla di una vecchia sorgente.

Se si riuscisse almeno a "riattare" le sorgenti del Torrione, si potrebbe incrementare in maniera controllata ed ottimale la portata  del fiume, oggi regolata da maleodoranti scarichi urbani, che naturalmente , andrebbero dirottati verso appositi collettori.  

 

              

 

                                             Il rispetto dell'ambiente

 

Nel clima rigido ed umido di Avellino, ben si adattano particolari colture , che trovano in questo ambiente il loro habitat ottimale. Già agli inizi del '600, il principe Camillo Caracciolo, aveva intuito le peculiarità climatiche del territorio, per cui , di ritorno dalle guerre nelle Fiandre aveva portato con sé , piante e fiori , allora sconosciuti in Italia., che impreziosirono il famoso "Parco del Principe" , ritenuto una delle meraviglie del Regno,  che i viaggiatori di riguardo non tralasciavano di visitare  << .. già mi trovo in Avellino , città del principe Caracciolo. Quivi il desiderio di vedervi  il giardino di quel signore è cagione che io dimori..... . Questo giardino signoreggiato da eminente palazzotto del Signore , parte in piano e parte in erto corrisponde col merito alla fama. Egli è nato per sua disventura nella sua fortuna , all'ingiurie del verno esposto; non conserverebbe  il suo corpo, se le membra di lui non fossero composte di tutto quel che più resiste al freddo. Le pergolate di lui non di aranci o di pomigranati , ma di edere e di lauri regi bisogna che si vestano , i laberinti di lui non di odorosi mirti o di fioriti rosmarini , ma di bussi o d'infecondi sanguini convien che si circondino, gli spazi dei vacui in lui, non di fiori italiani , ma dei fiamminghi è necessario che si coprano, onde invece delle rose , del garofalo, del gelsomino e della margherita , la peonia , l'anemone , il narciso e il tulipano qui pompeggiano...>> (G.V. Imperiale 1633) .

Questo particolare habitat ha favorito lo sviluppo di un paesaggio floristico , ricco di  interessanti specie vegetali , che già agli inzi del seicento suscitarono l'attenzione di eminenti  naturalisti quali Fabio Colonna . Ricerche più approfondite e sistematiche vennero comunque  condotte tra la fine dell'ottocento e gli inzi del '900 . In particolare merita di essere segnalata l'opera di due valenti studiosi quali A.Trotter e T. Ferraris , i quali esplorarono con accuratezza il territorio avellinese, definito dal primo<< botanicamente tra i più interessanti dell'Italia meridionale>> . Il secondo, che insegnò "Soria Naturale e Patologia Vegetale" nella  R. Scuola Enologica di Avellino, sollecitava una << maggiore conoscenza della flora di questa interessantissima regione che per quanto esplorata da insigni botanici antichi quali il Colonna, il Casale, il Gussone ed il Tenore , e più recentemente da Baccarini , Milani, Casali e Trotter, tuttavia non è stata ancora sufficientemente e completamente studiata dal lato botanico , essendovi la flora per le condizioni topografiche e per quelle climateriche molto varia e non poco interessante..>>.

E' opportuno notare che fra le zone maggiormente studiate, perchè ricche di varietà interessanti, figura quella  detta "Sciorta", che  a grandi linee corrisponde al costone che degrada verso il Fenestrelle in prossimità  di  contrada S. Spirito. L'attenzione , naturalmente, va rivolta a tutta la dorsale che accompagna il corso del fiume e  ,che ,ancora oggi , può assumere dignità di "percorso naturalistico" se riproposto nel suo "stato naturale", senza "soluzioni artificiose", che nella presunzione  di "abbellire " gli tolgono gli elementi più caratterizzanti.

A tal proposito sarebbe interessante tener presente i "percorsi" realizzati- presumibilmente con una spesa irrisoria  -  nel "Parco" di S. Angelo dei Lombardi . Essi si articolano , in un ambiente lasciato nel suo stato "naturale" , rustico (non sporco!).

Naturalmente , occorre il contributo di esperti  del settore, che sappiano concordare  nel miglior modo possibile l'artefatto con la natura circostante , scongiurando  la "cementificazione selvaggia".

 

 

                                                Recupero dei Mulini

 

 

Per secoli la vita della Fondovalle è stata caratterizzata dalle molteplici attività legate alla presenza dei più svariati opifici. Oggi questi luoghi sono malinconicamente deserti; nè potranno essere più rivitalizzati dai "vecchi" vatecali, bastasi, fondachieri, i mastri delle "ferraturie et arcanturie" o dalle lavandaie che strizzavano i panni su pietre bianche e levigate dall' usura. Non per questo ,comunque, devono scomparire le tracce di questo passato , che, anzi,  va rivisitato ed apprezzato , perchè in esso ci sono le nostre radici più profonde.

Tutto ciò che rappresenta questo "mondo antico" deve quindi essere salvaguardato e reso fruibile nel migliore dei modi possibili.

Fortunatamente nelle contrade Macchia e  Infornata, esistono ancora i resti di due antichissimi  mulini . Ricoperti da rovi , essi sembrano attendere pazientemente- ma non senza "trepidazione" - qualche anima buona che si ricordi dei loro "gloriosi" trascorsi.

Negli archivi delle Abazie di Cava dei Tirreni e di Montevergine, esistono diverse antiche pergamente che ci hanno consentito di tracciare dei brevi  porfili storici di questi mulini.

Li proponiamo con la speranza di rendere un doveroso servizio a questi opifici caduti miseramente nell'oblio.

 

Il Mulino dell'  "Infornata"

 

Mulino " in Plaiora" , "de Capu" , "in Aqua Fornata" ,, sono solo alcuni dei nomi di questo antico opificio: ancora oggi, nella contrada Infornata , ai confini tra Torrette di Mercogliano ed Avellino, si possono vedere i resti delle sue poderose torri e quelli di un corpo di fabbrica che circoscrivono la struttura.

La sua storia documentata ha inizio nel maggio del 1139 , quando il potente signore di Monteforte, il normanno Guglielmo Carbone, donò alla chiesa di S. Leonardo una metà del mulino quod vocatur de Capu. La chiesa di S. Leonardo  era una dipendeza della celebre badia di Cava dei Tirreni, che già da diversi decenni rappresentava uno dei centri religiosi e culturali più affermati nel Mezzogiorno d'Italia. La grancia avellinese , con annesso monastero, si trovava nei pressi del suburbio , lungo la via salernitana (nella fondovalle, nei pressi del Mercatone). Dell'altra metà del "mulino de Capu" era proprietaria un'altra potente istituzione ecclesiastica , che proprio nel corso del XII secolo si impose nella nostra regione: l'Abazia di Montevergine.

Per ben comprendere le successive fasi della storia del "nostro" mulino , occorrerà "spostarsi" ad Atripalda e precisamente nell'antica località detta "Archi" . Questo luogo , ai piedi del monte "Atrupaldo" dove sorgeva l'omonimo castello, si trovava nei pressi delle chiese di S. Ippolisto e di S. Maria dei Morti e probabilmente il suo nome traeva origine dalla presenza dei resti dell'antico ponte-acquedotto romano, che portava le acque dalle sorgenti del sabato all'antica Abellinum (località Civita di Atripalda). In prossimità di queste vecchie fabbriche << fabricam que arci dicitur>> si trovava il "Mulino de Archi" documentato fin dal 1086. Esso veniva alimentato dalle acque del fiume Salsula  << in aqua que dicutur salsula>> , che probabilmente doveva il suo nome alla presenza di notevoli quantità di sali minerali. Il Salsula scorrendo lungo la direttrice Salza-Atripalda affluiva nel Sabato dopo aver attraversato Atripalda. Verosimilmente la località Archi si trovava nei pressi del trivio che conduce a S. Potito e Manocalzati , dove nell'ottocento si trovava una cartiera , forse sorta proprio sui resti dell'antico mulino e oggi convertita in mulino elettrico.

Nel 1174 , il "signore" di Atripalda, il normanno Guglielmo, donò alla celebre badia di Cava , la chiesa di S. Maria dei Morti e con essa i suoi diritti , fra cui quello di percepire " la decima" sul mulino. I signori di Atripalda erano particolarmente legati alla istituzione cavese, tant'è che Tristano , padre di Guglielmo, volle essere sepolto nella famosa Abazia.

Nel 1184, Guglielmo, sentendosi vicino alla morte e desideroso di affidare la sua anima alle preghiere dei monaci cavesi, donò loro la propria metà del "mulino de Archi".

 Intanto , nel 1232, quando il feudo di Atripalda passò nelle mani del cavaliere napoletano Giacomo Capece, fedelissimo alla casa Sveva, per ristabilire le finanze del feudo, erose dalla eccessiva prodigalità dei suoi predecessori, impugnò la donazione di Guglielmo, col pretesto che essa non aveva avuto né l'assenso regio né la conferma imperiale, lasciando alla Badia Cavese solo il diritto alla "decima" che le derivava dalla proprietà sulla chiesa di S. Maria dei Morti. Nel 1242, Marino Capece, succeduto al padre, restituì , in un primo momento, ai monaci la quota del mulino, ma più tardi, nel 1259, probabilmente a causa dei dissapori tra il papato e Manfredi , a cui i Capece erano legati da sincera amicizia,  rimise in discussione la donazione. La vertenza durò circa un anno ed ebbe un iter procedurale e burocratico piuttosto complesso ; alla fine , comunque, per "unanime volontà" venne definitivamente ceduta ai monaci. Il documento di ratifica , del marzo 1260, è particolarmente interessante in quanto da esso si apprende che l'altra metà del mulino apparteneva al Monastero di Montevergine<< alteram medietatem tenuerant monasterium Montis Virginis>>.

In definitiva, nella seconda metà del secolo XIII , il monastero di Montevergine  e quello di Cava dei Tirreni erano comproprietari , alla pari, di due mulini: quello "degli Archi" e quello "del Capo".

La convivenza fra le  due potenti istituzioni ecclesiastiche non era del tutto "felice" e ciò andava a discapito della buona conduzione degli opifici , per cui nel 1304  entrambe trovarono conveniente addivenire ad un accordo con il quale alla Abazia  di Montevergine  sarebbe toccata l'intera proprietà del "Mulino del Capo"  mentre a quella di Cava , il "Mulino degli Archi". Con questo diritto esclusivo di proprietà, il Mulino de Capu   cambiò anche il nome , assumendo quello di "Mulino dell'Abate" come appare già in un documento del 1317.

La storia futura di questo opificio  è strettamente legata alle vicende storiche che caratterizzarono l'Abazia di Montevergine. In particolare quando l'istituzione benedettina, nel 1430 subì il travagliato periodo della "Commenda" e poi dal 1515 al 1588 il "governatorato dell'ospedale della SS.ma Annunziata di Napoli" , moltissimi beni o furono dissipati o subirono indebite espropriazioni.Vittima di tali "espropriazioni" fu proprio il mulino dell ' Infornata , il quale , anche quando l'Abazia di Montevergine, con Sisto V, nel 1588 riottenne l'autonomia, restò appannaggio dell'Ospedale Napoletano, divenendo quindi il "Mulino dell'Annunziata". e tale restò per lungo tempo , fino a quando ..sopruso per sopruso... fu costretto a cambiare padrone.

Infatti , questo mulino , tra la fine del '500 e gli inizi del '600 , era l'unico che non apparteneva al "corpo dei mulini feudali" ; la qual cosa rappresentava un elemento di turbativa nel regime di monopolio dell'industria molitoria , sia perchè produceva un diverso tipo di macinato, sia perchè venivano richiesti solo "10 grani a sacco" contro i 15 imposti dagli altri mulini..

Furono fatti numerosi tentativi per acquisire questo opificio , ma i governatori dell'Ospedale non volevano rinunziare ai cospicui introiti.

A risolvere l'annosa questione provvidero i gabelloti avellinesi, gentiluomini di manzoniana memoria, i quali quando scorgevano un vatecale che << bel bello si dirigeva verso il mulino dell'Infornata>>, gli si avvicinavano e << piantandogli gli occhi infaccia , dicevano: qui questo grano non s'ha da macinare nè oggi nè mai ! >> I vatecali , che "non erano nati con un cuor da leone" preferivano macinare altrove, pagando anche qualche grano in più.

I governatori dell'Annunziata tentarono una timida protesta ma alla fine ritennero più opportuno vendere il mulino che finalmente divenne anch'esso uno dei "Mulini del Principe".

 

 

 

 

Il Mulino "alla Macchia"

 

L'attuale contrada Macchia , attigua a quella dell'Infornata , durante il medioevo , veniva genericamente chiamata "Valle" in riferimento alla particolare distribuzione topografica della fondovalle che comprendeva la "Plaiora" ovvero il Piano Maggiore (Torrete di Mercogliano) , la "Valle" (attuale contrada Macchia) il "Plano" ( attuale zona della Ferriera). I mulini distribuiti su questi territori , prendevano poi il nome rispettivamente di "Mulino de Capu", "Mulino de Mezano" e "Mulno de Pede". Evidentemente il "Mulino de Mezzano" era detto anche "Mulino alli Valli" .

In origine la proprietà di questo mulino era suddivisa in "quote azionarie" , dove la quota totale era rappresentata da un "anno di mulino". Pertanto "un mese di mulino " corrispondeva ad una quota azionaria di un dodicesimo;"sei mesi" rappresentavano la metà e così via.

Uno dei maggiori "azionisti" era rappresentato da un tal Luciano di Nola il quale nel 1238 vendé la sua quota , corrispondente a " sei mesi di mulino" , ad un illustre personaggio del tempo: il marchese Bertoldo di Hohemburg, signore di Monteforte e di Arienzo,  che intorno agli anni '50 occupò militarmente anche Avellino.( Valoroso condottiero, partigiano di Federico II di Svevia, per la sua sete di potere tradì più volte la causa Sveva durante la reggenza di Manfredi , per cui venne condannato al carcere a vita dove morì).

Precedentemente , la quota venduta al marchese era appartenuta ad un certo Giovanni d'Aliperto. Gli eredi di quest'ultimo impugnarono l'atto di vendita , rivendicando "tre mesi di mulino" . La sentenza emessa dai giudici di Avellino, nel 1245, diedero ragione agli eredi d'Aliperto, per cui il marchese, pur rivalendosi su Luciano di Nola, fu costretto a cedere parte della quota acquistata. Per reintegrare la quota ceduta, il marchese nel 1250 si rivolse ad altri due soci: Maginulfo e Dauferio, dai quali ottenne rispettivamente "due mesi " e "un mese di mulino " per un totale di "tre mesi" , che corrispondeva proprio alla quota venuta meno.

Nel 1252 ,Bertolodo, con il consenso di Corrado IV, cedette la signoria  di Monteforte al fratello Ludovico, il quale la detenne fino al 1256.

Quete brevi note storiche ci consentono di avanzare alcune ipotesi circa il futuro del mulino alla Macchia.

In un prezioso documento angioino, andato perduto, ma tramandatoci dallo storico Scipione Bella Bona e databile intorno al 1280, in cui venivano elencati i beni dell'Abazia di Montevergine. risultava anche << ..molendinum unum in aquafornata , ubi dicitur Valla>>. Come e quando i monaci entrarono in possesso del mulino?

Verosimilmente fu Ludovico di Hohemburg a donare all'Abazia la sua cospicua parte del mulino , ricevendo in cambio ... le preghiere dei monaci; infatti nel "necrologio verginiano" , ovvero il libro in cui venivano elencati coloro i quali si erano resi meritevoli di essere ricordati nelle orazioni , nell'obituario del 30 settembre troviamo citato << Federicus comes Onnedeburg theotinicus >>   . Quasi certamente si tratta di Ludovicus, che per errore dell'amanuense è diventato Federicus. A rendere questa ipotesi plausibile , contribuisce un documento del 1260 , nel quale citando una terra nei pressi del "mulino alla valle", veniva specificato che esso apparteneva al monastero di Montevergine. Se si considera che solo qualche anno prima il mulino era in gran parte di proprietà degli Hohemburg , ci si rende conto che il "passaggio di proprietà" non può che essere avvenuto durante la loro signoria.

La storia futura di questo mulino è piuttosto oscura , in quanto, esso, scomparso improvvisamente dalla gestione economica del monastero, compare fra quelli appartenenti al corpo dei beni feudali. Ciò , comunque, avvenne almeno nella prima metà del '500, in quanto in tale epoca  esso risulta già proprietà della Marchesa Maria de Cardona, signora di Avellino. 

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