IL
SACCO DI AVELLINO NEL 1647
(LA COSIDDETTA
RIVOLUZIONE DI MASANIELLO)
di
Gerardo Pescatore
La pace di Cateau Cambrsis, che nel 1559
pose fine al lungo e sanguinoso conflitto tra la Spagna di Carlo V e Filippo II
e la Francia di Francesco I ed Enrico II, sanc la supremazia
della Spagna come massima potenza del continente e la sua egemonia in Italia.
Per un cinquantennio la monarchia spagnola mantenne una posizione di grandiosit
e di sfarzo appoggiandosi sulla nobilt mediante la concessione di cariche e di onori che favorirono lĠaccentuarsi dei privilegi sociali.
Ma, al di l dei segni esteriori di unĠostentata opulenza
esibita dalla classe aristocratica, fin dalla prima met del XVII secolo si
cominci ad avvertire una decadenza di natura etico-politica
e culturale, cui si accompagn una crisi anche in campo economico causata soprattutto
dallo spostamento del baricentro del commercio europeo dal mar Mediterraneo al
mar Baltico e allĠoceano Atlantico ed aggravata dalle carestie e dalle epidemie
che colpirono lĠEuropa. Si aggiunga poi un eccessivo fiscalismo, che rappresent lĠaspetto pi negativo della dominazione spagnola
in Italia, con lĠimposizione di tasse gravose per pagare le imprese militari e
per fronteggiare gli effetti delle calamit naturali (come la pestilenza di
Milano del 1630 mirabilmente descritta nei Promessi Sposi o quella terribile
che decim Napoli ed Avellino nel 1656)
peggiorando le condizioni gi misere delle popolazioni.
In molte regioni
dellĠItalia scoppiarono agitazioni sociali e tumulti popolari provocate dal forte squilibrio sociale a cominciare dalla rivolta
di San Martino a Milano nel novembre del 1628 contro il rincaro del prezzo del
pane. Anche a Palermo furono promossi dal popolano Nino
della Pelosa moti, cui fecero seguito i bandi del
vicer della Sicilia sullĠabolizione di ogni gabella con la concessione
dellĠindulto agli insorti.
Apprese le notizie
dellĠiniziale successo dei moti palermitani, il 7 luglio 1647 Napoli insorse da
piazza Mercato contro il governo di Spagna per la
gabella messa sulla frutta fresca e per le enormi tasse che opprimevano questa
citt e il regno. I sediziosi, capitanati dal pescivendolo di
Amalfi Masaniello (Tommaso Aniello), acclamato capopopolo, al grido di
ÒViva Ôo Rre Ôe Spagna, mora Ôo malgovernoÓ ne
reclamavano lĠabolizione.
In realt la
rivoluzione di Masaniello fu ispirata e sostenuta dal prete giurista napoletano,
Giulio Genoino, secondo il quale tante imposizioni
fiscali erano effetto dellĠordinamento municipale,
basato sulla disparit di potere tra nobilt e popolo, e della venalit dei baroni.
Proponeva perci una riforma della costituzione di Napoli, ma gli insorti
non appoggiarono tanto lĠutopistico programma del Genoino
per indirizzarsi soprattutto contro le odiose gabelle fatte imporre dal vicer
e contro le prepotenze e lĠegoismo economico della nobilt diventando, secondo
la definizione di Croce, Òuna reazione proletariaÓ.
La rivoluzione costrinse alla
capitolazione il governo regio, che concesse la parit di voti tra nobili e
popolani nelle deliberazioni municipali, lĠabolizione di ogni
dazio imposto dopo Carlo V e un indulto generale. La tragica fine di
Masaniello, signore quasi assoluto per nove giorni, ucciso il 16 luglio nella
chiesa del Carmine dai suoi stessi amici, non spense la rivolta, continuata
dallĠarmaiuolo Gennaro Annese,
il quale sosteneva il tentativo dei Francesi di mutare il regno in repubblica dopo
aver cacciato gli Spagnoli. Il 22 ottobre la rivolta del popolo napoletano si concluse con la proclamazione della repubblica sotto la
protezione del re di Francia.
Il nuovo governo di Napoli, appena
insediatosi al potere, ebbe cura di tenere aperte le comunicazioni con le Puglie per non far mancare il pane ai napoletani; perci
sorse la necessit di far sollevare tutti i paesi del Principato Ultra. I
tumulti si propagarono rapidamente
nel Regno, ma, se in Napoli la sommossa ebbe origine dallĠeccessivo fiscalismo
del governo spagnolo, nelle province e nelle campagne ebbe come unico scopo
lĠindipendenza dal giogo feudale assumendo caratteristiche contadine e sociali.
LĠobiettivo fu, quindi, il ridimensionamento del potere baronale, al quale il
governo spagnolo aveva concesso una sempre maggiore estensione dei privilegi
feudali per ottenere dai rappresentanti della nobilt lĠapprovazione delle
misure finanziarie e fiscali imposte per sostenere gli oneri della guerra dei TrentĠanni.
Avellino,
che stava attraversando un periodo di sviluppo economico grazie alle attivit
industriali e commerciali, promosse dai principi Caracciolo,
non sembr scuotersi eccessivamente alla notizia dei moti di Masaniello. Il boom
economico, imperniato soprattutto sullĠArte della lana, introdotta dal principe
Camillo Caracciolo (1591-1617) per potenziare la manifattura
dei pannilani con nuove macchine idrauliche, come gualchiere o folloni e una
ÒsoppressaÓ a fuoco, con cui veniva effettuato tutto
il ciclo produttivo dei panni, migliorarono notevolmente le condizioni di vita
degli avellinesi e il loro rapporto con i feudatari.
Allarmati dal vicer, duca dĠArcos, del pericolo che correvano, i maggiori
feudatari irpini (i principi di Avellino, di Torella,
di Chiusano) si incontrarono a Montefusco,
capoluogo del Principato Ultra, col duca di Salza, Giovan Vincenzo Strambone,
preside della provincia, per prendere una decisione comune ed essere pronti
alle armi. I feudatari, come scrive nel vol. III del Diario Francesco Capecelatro[1],
lo storico pi autorevole di questo avvenimento, Òunite molte squadre
di masnadieri ed altra gente di loro vassallio
avevano fatto significare al Vicer per mezzo di Cesare Pignatello,
marchese di S.Marco, come stavano pronti a ci che di
nuovo avvenir potesse e lui avesse comandatoÓ. Sempre il Capecelatro
racconta un episodio curioso: il sedicenne principe di Avellino,
Francesco Marino I, e il principe di Torella Giuseppe Caracciolo,
zio e suo tutore, preoccupati della piega che stavano prendendo gli avvenimenti, ritornati ad
Avellino,
interrogarono il priore, frate Biagio Magno, famoso
astrologo, per conoscere lĠesito della guerra imminente, Òed il buon Padre o che cos per astrologia,
come lui diceva, conoscesse, o pi tosto essendo di cuor fedele e leale, gli rincor ed anim promettendogli certa vittoria, e che il
tutto conforme il volere dei buoni si sarebbe in breve acchetatoÓ.
La situazione
precipit nella Valle dellĠIrno, dove i Caracciolo possedevano
importanti feudi. Il focolaio della rivolta scoppi a Sanseverino,
dove il principe si era recato con i suoi armati per sedare alcuni tumulti
provocati da bande di popolari.
Questo
intervento, per, offr il pretesto ai suoi avversari, capeggiati da Paolo di
Napoli, per istigare la popolazione ad armarsi costringendo il principe alla
fuga. Sempre nel racconto del Capecelatro,
testimone diretto di questo tumulto, i Sanseverinesi,
sostenendo che il principe Òera venuto per castigarli avendo fatto
piantare alcune paia di forche nel Mercato di essa terra e che si erano ritrovati molti capestri nella casa di un gentiluomo di casa Caiano, ove il principe albergava, si sollevarono istigati da Paolo di NapoliÓ, che di risposta aveva fatto trovare impiccati alcuni cani provocando la furia del popolo e la ritirata del principe. LĠincrescioso episodio segn lĠinizio della rivolta di Paolo di Napoli, Òuomo vilissimamente nato, ma notabilmente arrogante e temerario, che aveva servito lungamente di cavallaro ordinario alla Dogana di FoggiaÓ (questo il breve, ma incisivo profilo tracciato dal Capecelatro a pag.68 del volume citato), che spinse alla sedizione Montoro e poi Serino.
Una grave
minaccia incombeva su Avellino, dove era ritornato il principe, dietro invito
del vicer, allo scopo di scongiurare con i suoi 400 uomini
lĠinvasione dellĠimportante crocevia della strada che conduceva a Napoli dalla
Puglia; infatti alla banda del di Napoli si erano unite le truppe guidate dal
capopopolo di Lauro, Sebastiano di Bartolo, formando un gruppo di 4000 armati.
Si trattava di un pericolo serio al punto che il principe di Torella Giuseppe Caracciolo da Aversa si precipit
ad Avellino, la cui difesa rivestiva un fondamentale interesse strategico. Ma
non fu una mossa vincente, al contrario fece precipitare
la situazione. I cittadini di Atripalda,
gi propensi ad arrendersi al capopopolo, quando videro lo scarso numero degli
uomini accorsi in loro soccorso, si unirono ai rivoltosi costringendo alla fuga
il governatore Geronimo della Marra e impadronendosi del palazzo feudale grazie
anche alla complicit di alcuni servi del principe. La notizia della caduta di Atripalda, avvenuta senza
opporre alcuna resistenza il 18 dicembre, fu il presagio della disfatta per
Francesco Marino Caracciolo, che, diffidando della fedelt
dei suoi uomini, in gran parte originari di Sanseverino,
di notte abbandon il castello in compagnia del principe di Torella, del
governatore di Avellino Antonio de Conforto e di Geronimo della Marra e con una
scorta di soli 40 uomini ripar ad Aversa.
Il
giorno seguente le milizie popolari del di
Napoli entrarono in Avellino senza colpo ferire e violando
gli accordi presi con gli abitanti si abbandonarono ad un crudele e feroce
saccheggio della citt durato fino al giorno di Natale 1647 seminando terrore
tra i cittadini. Il saccheggio colp non solo il castello, con i giardini
del famoso parco, e i palazzi dei nobili,ma
indistintamente tutte le abitazioni e persino i conventi, dove le
donne, che si erano rifugiate insieme alle religiose, furono violentate. Solo
il palazzo vescovile riusc a scampare alla devastazione per ÒlĠintrepidezzaÓ
mostrata dal vescovo Mons. Bartolomeo Giustiniani. Il
bottino super i 200.000 ducati; infatti, come afferm lo
storico Francesco Fabris, Òdal palazzo furono portati via molti oggetti
preziosi, mobili, suppellettili ed anche molti moschetti rigati tenuti in
dotazione dal reggimento di cavalleggeri che i principi di Avellino solevano mantenere
a proprie speseÓ. Fu poi sparsa la voce che Francesco Marino Caracciolo, riparato ad Aversa,
si era addirittura accordato con i popolari; ma, anche se il principe sment
pubblicamente quella notizia, non si attenu il grande spavento degli Irpini perch dopo Avellino, nelle mani dei capipopolo
cadde tutta la provincia, inclusa Montefusco, sede
del tribunale del vicer, presa da Pietro di Crescenzo. Paolo di Napoli,
imitando in megalomania e in follia
Masaniello, si autoproclam
principe di Avellino, dove per ordine del duca di Guisa fu posto un presidio di
400 uomini della milizia popolare, capitanati da Sebastiano di Bartolo,
promosso maestro di campo, e mantenuti a spese dellĠuniversit, sebbene dal 1ĵ
gennaio 1648 fossero abolite in nome del popolo tutte le gabelle.
A
febbraio del 1648 il duca di Guisa convoc i capipopolo a Napoli per spingerli
a conquistare i castelli e i casali ancora nelle mani degli Spagnoli e tentare
di porre fine alla guerra. Paolo di Napoli, in cambio dei servizi passati e
futuri, pretese di legalizzare la sua autoproclamazione
a principe di Avellino e reclam lĠufficio di Gran
Camerlengo del Regno e il dominio della Dogana di Foggia. Queste richieste, che
rivelarono la smodata sete di potere del capopopolo, furono ritenute
inaccettabili dal duca e ben presto crearono una frattura tra i due. Non si
esclude che Paolo di Napoli si accordasse con gli
Spagnoli, i quali gli avrebbero chiesto la testa del duca Enrico di Lorena,
che, preavvertito del tranello, pass al contrattacco facendo arrestare e poi
condannare a morte il di Napoli e il suo sergente maggiore nonch cognato
Giuseppe Fusco.
La
notizia dellĠimpiccagione del capopopolo avvenuta il 20 febbraio 1648 produsse
uno sbandamento nelle sue bande e la loro dissoluzione allĠarrivo del nuovo
vicer di Spagna conte dĠOgnatte che il 5 aprile 1648
mise fine alla repubblica instaurata dallĠAnnese restaurando
lo status quo e riportando al potere gli Spagnoli. Il 19 aprile Avellino fu rioccupata dal principe Caracciolo,
che fece passare per le armi molti traditori. ÒDa quella tempesta la citt
usciva senza mezzi, e senza speranza di averne subito, in preda al pi disperato
dissesto della sua economia e della sua finanzaÓ (Scandone
Storia di Avellino). E cos per provvedere alla
ricostruzione di Avellino gli amministratori del
1648-49 dovettero aumentare tutte le imposte e le gabelle. Ma anche dopo la
restaurazione del regime vicereale non ritorn la calma, anzi vi fu un dilagare
spaventoso del banditismo fomentato dai baroni, usato come strumento
di terrore e potere. Al terrorismo e alle vessazioni baronali si contrappose la
violenza popolare, sconfitta ma non vinta.
Con
questo tragico scenario si chiudeva in Irpinia la
cosiddetta rivoluzione di Masaniello.
[1] Francesco
Capecelatro
Diario delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-50,
Nobile, Napoli, 1850.