La china del centro storico  è di Angelo Cortese

 

Ormai raramente vado a cinema, vi sono troppe scale da salire. Anche una struttura nuova come il Cineplex  ha disatteso le disposizioni sulle barriere architettoniche. Sono certo che se qualcuno dei responsabili, se mai gli dovesse capitare di leggere queste note, risponderebbe immediatamente che non è vero e in parte avrebbe anche ragione. Per l’accesso alle sale, infatti esiste una piattaforma mobile, ma per farla funzionare occorre andare a chiamare l’operatore, e poi, senza alcun rispetto della dignità e della privacy della persona, il disabile deve restare in mostra a dare spettacolo di sè  per la durata dell’ intera operazione. E’ questo il modo di rispettare lo spirito della norma? Un semplice ascensore avrebbe risolto meglio il problema. Per il Partenio poi, l’altro cinema cittadino,per carità di patria preferisco non parlarne affatto. Tuttavia non è di questo che intendo scrivere oggi. Come dicevo, diventano sempre più rare le volte che mi capita di andare a cinema. Qualche anno fa, però, fu Giuseppe Tornatore a trascinarmi. Di  Nuovo Cinema Paradiso se ne diceva un gran bene che alla fine mi lasciai tentare e feci bene, perché il film lo meritava davvero. La scena delle persone che si portavano la sedia da casa per poter vedere La Dolce Vita di Fellini mi fece riaffiorare  ricordi da tempo sopiti. Negli anni cinquanta Avellino non era molto diversa da Bagheria e il Cinema Umberto non era dissimile dal Nuovo Cinema Paradiso. Ricordo che vi si proiettava Via col Vento, nell’ultima giornata la folla all’ingresso era tanta che  una fiumana di persone finì per travolgere il povero Esterino, lo stacca biglietto,  e  invadere la sala. Anche in quella circostanza alcuni avevano pensato bene di portarsi dietro qualcosa su cui sedersi. La pellicola durava  alcune ore e quasi tutti  oltre la sedia avevano portato anche da mangiare. Al Cinema Umberto ero di casa, con mi cugino vi andavamo tutte le volte che potevamo e di certo di domenica non vi mancavamo mai. Quando il film ci piaceva in modo particolare restavamo in sala a vederlo per la seconda volta e Esterino che era del quartiere e conosceva le nostre famiglie fingeva di non accorgersene. Sul finire degli anni cinquanta anche da noi  arrivò la televisione e, almeno nei primi anni, fu una delle cause della crisi delle sale cinematografiche.  Avellino, come dicevo, negli anni del dopo guerra era una piccola e povera città di provincia ed erano poche le famiglie che  potevano permettersi un televisore, così  la direzione del Cinema Umberto,  decise che ogni giovedì sera, per dare spazio alla trasmissione di Mike Buongiorno si interrompeva  la proiezione del film per riprenderla subito dopo, così  tutti potevano vedere Lascia o Raddoppia. La dogana era di proprietà del signor Sarchiola e questo aveva pensato bene di adibirla a sala cinematografica. Il Cinema Umberto, dopo gli anni sessanta, per molti anni fu in competizione con il Giordano, col quale si contendeva il titolo di primo cinema della città. Quando però la città cominciò ad espandersi e il Centro Storico a spopolarsi non ci fu più storia. In un disperato tentativo di continuare ad attrarre spettatori e di salvare l’impresa, la famiglia Sarchiola lo riammodernò, lo dotò di nuove e confortevoli poltrone, ma soprattutto di un tetto apribile. Era una novità assoluta,  che tuttavia non ne arrestò l’agonia. La sala era ormai decentrata e priva di di parcheggi e le nuove norme in materia di sicurezza ne determinarono inesorabilmente la fine. La dogana per lunghi decenni si è identificata con il Cinema Umberto, come  tutt’ora avviene per piazza Amendola, meglio conosciuta come ”a  piazza ro’ re e’ brunzo”. Solo dopo il terremoto dell’80, che ne risparmio in parte  la sola facciata, ritornò ad essere la Dogana e  gli avellinesi scoprirono di avere avuto,per tanti anni sotto i loro occhi, un capolavoro del Fanzaga   e di non essersene mai accorti. I cartelloni e i manifesti che pubblicizzavano le programmazione dei films erano fin troppo colorati e avvincenti per lasciare che lo sguardo si spostasse in alto ad ammirare le statue nelle loro nicchie, le lesene lungo le parete e pinnacoli sul cornicione. Al di là dell’importanza monumentale che la Dogana riveste, non va sottaciuto il ruolo di aggregazione sociale e culturale da essa svolto quando per gli avellinesi era semplicemente il Cinema Umberto. Questo è un secondo, ma non secondario motivo per cui occorre lottare per salvare e restituire la dogana alla città, anzi tra le sue future destinazioni, non trascurerei l’ipotesi di una piccola sala per una cinquantina di persone da destinare al cinema d’essai.  Sono infiniti i ricordi della nostra fanciullezza che ci legano ad essa e al Cinema che per tanti anni ha ospitato e ai personaggi  che animavano la piccola, ma importantissima piazza antistante. Il cocchiere con la sua carrozzella in attesa dell’improbabile passeggero diretto alla stazione, la vecchietta che vendeva le caldarroste d’inverno e i sementi e le noccioline americane nella buona stagione da rosicchiare al cinema. E poi come dimenticare il gelato al limone del “Mio Bar”. E poi ancora chi di noi non ha approfittato del buio della sala per stringere la mano della ragazza che poi è divenuta nostra moglie. Via, sono tanti i motivi per SALVARE LA DOGANA.

 

 

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