Sono esattamente quarant’anni che non vivo più ad Avellino. Non sono lontano: dalla mia casa di Napoli ci arrivo in poco più di mezzora. Finché erano vivi i miei genitori, ci facevo un salto una volta ogni settimana o due, senza però scendere dalla macchina. Pranzavo con i miei e nel pomeriggio, sempre in auto, raggiungevo la casa di una coppia di cari amici, con i quali ero e sono rimasto in contatto. Poi, di nuovo a Napoli.
Ormai parecchi anni fa, i miei se ne sono andati. I pochissimi amici che mi sono rimasti li rivedo un paio di volte all’anno in una casa di campagna in provincia, dove vado a ritrovare il verde e, sullo sfondo del panorama, il profilo di Montevergine. Sono quindi rarissime le occasioni di rivedere la città e di fare anche una sola passata per il corso, come ai vecchi tempi del liceo.
Per chi ci vive forse Avellino è cambiata soltanto nell’aspetto in seguito alla ricostruzione post-terremoto; ma non è così, è molto cambiata anche nella sua estensione e morfologia: mi è capitato di perdermi sulla collina dei cappuccini; non sapevo più dove mi trovavo esattamente e ho dovuto chiedere informazioni per tornare indietro!
Un paio d’anni fa, conversando con mio figlio, gli spiegavo che in passato quasi tutte le città avevano un vicolo della neve, che non è una denominazione di fantasia, ma un luogo, che per esposizione (non vi arrivava mai il sole) era quello più adatto d’estate a fare da magazzino appunto della neve, che durante l’inverno veniva raccolta e stipata in apposite buche sulla montagna. Mi venne allora una strana voglia di rivedere il vicolo della neve della mia città, del quale conservavo un vaghissimo ricordo risalente all’infanzia.
Un sabato pomeriggio ci sono andato di proposito e… non l’ho trovato, non c’era più: era stato inghiottito da un palazzone completamente “fuori luogo”, ultimo sfregio a quella Piazza del popolo (’ncopp’o Carmine), già brutalizzata e distrutta dal cupio dissolvi di chi taglia le radici secolari all’albero del quale egli stesso è frutto. In quell’occasione ho odiato i miei concittadini, perché, in cambio di favori ottenuti o semplicemente sperati, continuavano a sostenere politici, potenti anche a livello nazionale, i quali premiano i grandi elettori, come ad esempio i palazzinari, intercedendo per loro, affinché possano costruire dovunque, senza riguardo per i luoghi della memoria.
E la Dogana che c’entra?
Per me c’entra molto. Leggendo le tante “dichiarazioni d’amore per la Dogana” mi sono più volte commosso. Innanzitutto perché ho scoperto quante persone, qualcuna col cognome a me noto, danno prova di un talento letterario e artistico di primordine, in grado di comunicare e sollecitare emozioni talvolta con leggerezza, talaltra con la forza di un pugno nello stomaco. Ma quel che mi ha commosso di più è la passione che tanta gente conserva e nutre per la propria città, gente che scopre l’amore per la Dogana quando rischia di perderla. Mi sono così riconciliato con i miei concittadini, o almeno con i tanti che testimoniano la loro sensibilità. E questo grazie alla Dogana…
Forse, se ci fossero state tante dichiarazioni d’amore anche per Piazza del popolo e il vicolo della neve, quei luoghi, o anche semplicemente il loro tracciato originario, esisterebbero ancora, ed io non avrei fatto i cattivi pensieri che feci.
Celestino Genovese