Dichiarazione d’amore per la Dogana

di Emilia Bersabea Cirillo

 L’ultimo film che ho visto al cinema Umberto si intitolava Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Il film narrava di un’America razzista anni  trenta, di violenti uomini bianchi, di fedeli uomini neri, di due amiche coraggiose e solidali, dei loro destini che si intrecciano per una vita intera, del loro caffè Whistle Stop.

Uscimmo dal cinema contente, il film era intenso, commovente, ben fatto. Mi ricordo che chiedemmo alla maschera fino a quando sarebbe stato proiettato. Valeva la pena rivederlo.

Era il 1992.

Malgrado fossero già passati 10 anni dal terremoto, Avellino era ancora tutto un puntello. Avevamo desiderio di posti dove raccoglierci, incontrarci, passeggiare. Avevamo voglia di normalità.

Al centro storico si andava con difficoltà.  Troppi morti, troppi strazi, troppi crolli. Il cinema Umberto, miracolosamente intero e funzionante all’interno di quel tessuto urbano in fase di trasformazione, ci ricordava che la vita continuava sul suo binario, che si poteva ancora fare quello che normalmente si faceva prima del terremoto: entrare in un cinema, chiedere un biglietto, vedere un film, chiacchierare con un’amica, perdersi dietro visi sconosciuti, fumare una sigaretta, aspettare che tra un intervallo e un altro, il tetto mobile srotolasse sopra le nostre teste fino a mostrare il cielo. Ero grata a quella grande, antica scatola di luci, perché mi accoglieva, mi aiutava a sognare, mi proteggeva dalle rovine. Ritornavo a casa consolata.

E poi sapevo che era stata, in tempi lontanissimi e vitali, la nostra Dogana, un luogo importante, simbolico, di scambio, di pesa, di denaro, di carri, di paglie e granaglie.

La maestra delle elementari, quando ci svelò che il cinema si era insediato nello spazio di quello che   era stata un casello daziario, produsse un certo stupore in classe. Non eravamo disposte a crederle. In risposta alla nostra incredulità, volle che trovassimo vecchie cartoline di Avellino, illustrazioni e qualunque altro documento. Lo scopo era farci affezionare alle ricerche storiche che lei amava tanto ma anche dimostrare che quella fabbrica era stata sempre là, da mille anni, in quello slargo circondato da bei palazzetti antichi, alle spalle della statua di Carlucciello,  che non si sarebbe mai mossa da quel luogo e che l’avremmo sempre ricordata, cinema o non cinema, nella sua verità di   monumento.

La maestra, con parole semplici, ci aveva edotto su quello che avrei studiato anni dopo ad Architettura e che   il grande Aldo Rossi definiva “permanenza del monumento” all’interno della città.

 Dopo pochi giorni della proiezione di Pomodori verdi fritti, sapemmo che un incendio aveva bruciato il cinema Umberto. Pensammo che lutto si fosse aggiunto a lutto. Ma che poi il cinema sarebbe tornato a spalancare la sua magica sala e che il tetto mobile avrebbe fatto vedere il cielo sopra le nostre teste.

 Il film terminava così “…Quando il locale chiuse, il cuore della cittadina cessò di battere. E’ strano che in un locale come quello, si siano incrociati i destini di tanta gente…”.

 Non potevamo sapere quanto quelle parole si sarebbero rivelate profetiche.

 

 

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