“Il filo della memoria. Una villa e una città”
L'articolo di Cecilia Valentino
che, su Il Quotidiano del Sud, parla del suo ultimo libro.
Nel giugno scorso è uscito il mio ultimo libro“Il filo della memoria. Una villa e una città” edito da Mephite.
La prefazione al libro è stata scritta dal prof. Giuseppe Moricola,
docente presso L’Orientale di Napoli, mio caro amico fin dagli anni
della fondazione del Centro Studi Guido Dorso. Ricordo i miei primi
lavori per il Centro, quando presidente era il prof.Manlio Rossi-
Doria, segretario l'indimenticabile Bruno Ucci e direttore della
ricerca Elio Sellino. Fu in quei primi anni di attività del Centro,
dopo il terremoto dell’Ottanta, che con Giuseppe abbiamo realizzato il
catalogo sistematico delle fonti a stampa che con il saggio sulla
stampa politica irpina, curato da me e dalla prof.ssa Emilia Alifano,
furono le prime pubblicazioni del Centro Dorso.
Avrei voluto presentare questo mio ultimo lavoro nella villa Amendola,
il luogo giusto poiché il libro parla di quella villa e della famiglia
che l’ha abitata. Purtroppo però, causa Covid, la villa, che ospita il
Museo civico e la Biblioteca comunale, non è stata riaperta.
Ho pensato quindi di scrivere, in un articolo su questo giornale sempre
ospitale, le considerazioni che avrei fatto con i miei eventuali
lettori ed interlocutori.
Villa Amendola e la sua storia, molto legata alla città di Avellino, mi hanno sempre interessato.
L’incontro e l’amicizia con Giovanna Amendola, ultima discendente della
famiglia che ha abitato la bellissima villa, oggi proprietà del Comune,
mi ha coinvolta tanto da cercare di far emergere dalla memoria
collettiva la figura di Franco Amendola, primo sindaco di Avellino
liberata.
E’ un libro, questo, in cui la ricostruzione storica si affianca ai
ricordi, anche personali, non solo di Giovanna, ma in alcuni momenti
anche miei come, ad esempio, quando rievoco l’epidemia di tifo che
colpì la nostra città.
Gli anni del dopoguerra e del primo sindaco di Avellino furono anni ai
quali sono stati dedicati molti studi da parte dei nostri più
importanti storici locali. Mio intento non è quello di aggiungere nuove
considerazioni, ma di rievocare episodi e vicende della nostra città in
anni certamente molto importanti per il popolo italiano, uscito
sconfitto da una dittatura e da una guerra terribile e che nel
referendum del 2 giugno 1946 votò per la Repubblica ed elesse
l’Assemblea Costituente.
Per la prima volta nella storia del nostro Paese le donne parteciparono
al voto e fra i rappresentanti del popolo che scrissero la Costituzione
vi furono 21 donne.
La Costituzione non è un freddo documento normativo ma è il lascito più
alto della Resistenza; scrive Piero Calamandrei:” Se voi volete andare
in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate
nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono
imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un
italiano per riscattare la libertà e la dignità” e continua con parole
che dovrebbero essere sempre vive:“La Costituzione non è una macchina
che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo
di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni
giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro
l’impegno, lo spirito”.
Sono parole che mi prendono ancora oggi e che ho sempre letto ai miei
alunni, quando si insegnava nelle scuole l’Educazione Civica.
Dobbiamo oggi ricordare, e nel mio libro cerco di farlo, che la
Resistenza fu una pagina gloriosa della nostra storia, alla quale
contribuì non solo il Nord, ma anche il Sud. In molte realtà del nostro
Mezzogiorno non mancarono cittadini che parteciparono attivamente alla
transizione dal fascismo alla liberazione.
Dopo l’8 Settembre del ’43 in molti paesi del Sud vi furono stragi
naziste di popolazioni inermi e vi furono episodi di ribellione di
cittadini contro i nazifascisti, come a Napoli con le gloriose quattro
giornate; ma anche nelle zone interne vi furono insurrezioni contadine
contro i podestà e i gerarchi fascisti, come a Calitri e in molti altri
paesi meridionali, dove furono proclamate “le repubbliche contadine”.
Solo recentemente, sia nel campo storiografico che nella percezione
comune, si comincia a riconoscere il giusto inserimento, nella storia
della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, delle Quattro Giornate
di Napoli, delle repubbliche contadine e del partigianato meridionale,
attivo nelle” bande” del Centro-Nord.
Un altro aspetto della nostra storia, che ho cercato di mettere in luce, riguarda il ruolo della donna nella guerra.
Negli anni Novanta e nei primi anni di questo secolo, la ricerca
storica ha cominciato ad esaminare l’esperienza delle donne nella
guerra e gli spaventosi livelli di sofferenza patiti dai civili.
Le storiche che hanno operato questa svolta sono molte, voglio
ricordare Anna Bravo, Gabriella Gribaudi e la storica inglese Perry
Wilson che in un suo importante scritto afferma: “Questo mutamento di
tendenza della storiografia colloca le donne in una posizione più
centrale nella storia della guerra”.
Nel mio libro ho cercato di soffermarmi su questo aspetto perché ancora
oggi leggendo i fatti di cronaca che riguardano le tante zone di guerra
che esistono nel mondo, le donne pagano il peso più duro, per stupri e
violenze.
Ma il secondo conflitto mondiale non fu solo questo, bisogna anche
ricordare che molte donne non furono soltanto semplici obiettivi
passivi dei desideri sessuali dei soldati, molte di loro fecero scelte
coraggiose che le portarono a combattere al fianco degli uomini, come
le staffette nella guerra partigiana, come le donne napoletane durante
le Quattro Giornate. Molti furono gli episodi di guerra che hanno avuto
come protagonisti giovani soldati americani e ragazze italiane, non
furono solo incontri sentimentali, vi furono anche episodi di
solidarietà e nel libro ne ricordo qualcuno.
Un capitolo centrale è intitolato “Dalla villa al municipio: Francesco
Amendola sindaco”, dove protagonista è una città distrutta dalla
guerra, ma con la voglia di riprendersi e di riscattarsi.
Non si può parlare di ricostruzione se si dimentica lo sfondo ideale
che circondava lo sforzo di rinascita e lo slancio di ripresa
dell’Italia sconfitta nella guerra e umiliata nel fascismo.
Anche Avellino, come tante città italiane, visse il momento storico
decisivo in cui la vecchia Italia stava crollando e nel contempo si
presentava l’occasione per l’emergere di una nuova classe politica
meridionale, pronta ad operare per il riscatto del Sud.
Non a caso nel mio libro, nella seconda di copertina, riporto due frasi
celebri di due nostri grandi uomini politici: Dorso e Sullo. Entrambi
in modo diverso e da sponde politiche diverse rivolgono, con severità
ed angoscia, l’allarme alla borghesia meridionale di uscire dall’apatia
e dal proprio interesse particolare. “Non si resiste- scrive Sullo- se
il ceto medio sta a guardare, se non vi è possibilità di ricambio…E’
possibile che la borghesia sia tutta irrimediabilmente esaurita?”.
La citazione di Sullo, tratta dall’ ”Appello agli optimates”, e
l’articolo “Ruit hora” di Dorso sono di grande attualità e mi piace
parlarne anche perché recentemente sono stati ricordati i vent’anni
della morte dell’importante uomo politico della DC, “spesso fuori
linea, l’eretico”, come scrive Goffredo Locatelli nel libro uscito
pochi mesi fa, per celebrarne l’anniversario.
Quanto scritto da Sullo e da Dorso risulta al lettore di ieri, ma anche
a quello di oggi, di estrema importanza. E’ un grido di dolore e di
allarme quando si sostiene che senza la partecipazione politica del
ceto medio non c’è speranza per l’Italia. La veridicità e lo spessore
politico delle affermazioni dei due grandi irpini sono molto attuali
oggi, nel momento in cui la pandemia, non solo sta distruggendo
l’economia del nostro Paese, ma ha messo in ginocchio proprio il
cosiddetto ceto medio. Tutti oggi dovremmo riflettere sulla necessità
di non lasciare spazio nell’organigramma della vita politica e sociale,
a classi dirigenti improvvisate e impreparate.
E’ chiaro che ho cercato di parlare della nostra città nel dopoguerra
tra memoria e storia. Ripensare infatti alla guerra, ricostruire la
storia di una famiglia e di una villa significa far emergere dai
documenti d’archivio e dalla stampa politica una storia che sia
vivente, cioè fatta anche di memorie. Certamente storia e memoria sono
entità diverse: la memoria anche se condivisa rimane un frammento,
mentre tocca alla storia l’onere della prova, attraverso un’ indagine
per arrivare ad una spiegazione inconfutabile, scientifica dei fatti e,
quindi, la memoria attraverso la storia si fa coscienza e conoscenza.
Da queste riflessioni nasce quindi il mio interesse storico per Villa
Amendola, diventata nella memoria collettiva un simbolo della città.
Dopo un lungo periodo di abbandono, dopo l’acquisto da parte del Comune
nel 2003, la villa è stata ristrutturata, ma purtroppo quel che resta
dello splendido parco è ridotto ad un giardino incolto.
Come molte proprietà del Comune anche villa Amendola, nonostante sia la
sede del bellissimo Museo Civico e della Biblioteca Comunale, rischia
di essere poco conosciuta e poco frequentata dagli abitanti della città
e del quartiere. Avellino non conserva molto del passato, quel che
aveva è stato distrutto dai terremoti ma anche dall’insipienza di chi
ci ha governato.
Oggi è necessario e doveroso, da parte delle istituzioni locali e
regionali, valorizzare tanti beni pubblici, come villa Amendola, il
Casino del Principe, i ruderi del Castello medievale, il centro storico
della collina Terra, l’antica Dogana, l’ex. GIL, proprietà comunali che
dovrebbero essere rese fruibili e capaci di aggregare giovani e meno
giovani.
Questi luoghi, oltre la ricchezza storica che rappresentano, hanno
tutte le premesse per essere centri culturali e sociali vivi e capaci
di mettere in moto anche forze economiche.
Sogno, e non voglio essere retorica, una pista ciclabile che corra
lungo il fondovalle del Fenestrelle, finalmente bonificato. Sogno
giovani e adulti che, invece di affollare unicamente bar e ristoranti,
scelgano uno di questi luoghi adeguatamente organizzati, capaci di
offrire cultura e divertimento, ristoro e quiete.