E’ finita
la scuola!
Quanto tempo è passato?
Come ha detto Montale:
“…volarono gli anni, brevi come giorni”. L’anno scolastico,
“la scuola”, sta per finire, restano gli ultimi giorni, ma chi
ormai ci bada più? Il pensiero è già, per usare un vecchio
detto, oltre l’ostacolo, i giochi già sono fatti, chi ha
lavorato durante l’anno conosce il risultato, chi ha strappato
un 5 spera nella compassione dei professori, chi proprio ha…
dormito sui banchi, come si diceva una volta, si è rassegnato
a trascorrere qualche giorno di penitenza; poi, eccole, per
tutti, le vacanze! Cosa rimane, di quei giorni, quando eravamo
felici, e non lo sapevamo?
Erano gli anni 50, ad
Avellino, le scuole medie erano un paio, la numero 1, la
“Dante Alighieri” e la numero 2, la “Cocchia”, numeri
assegnati dalla sorte o da un annoiato addetto del
Provveditorato, senza per questo attribuire all’uno o
all’altra un qualsiasi primato. Io frequentavo la seconda,
guidata dal preside Cillo, terribile cerbero dal cuore d’oro
che aspettava davanti all’ingresso che entrassimo, in un
silenzio da cattedrale, agitando, di quando in quando, il suo
pesante bastone, sorridendo, sono sicuro, quando non lo
guardava nessuno.
La scuola era davvero povera,
allora, con i doppi turni e l’entrata pomeridiana. Solo un
paio di classi erano ospitate nella “Centrale”, a pianterreno
dell’edificio sito in via De Concilii. Il resto era sparso a
pioggia nella città, alcune classi ospitate in via Ronca, in
un vecchio appartamento gelido, altre, la maggior parte, in un
vecchio fabbricato ECA, il via Tagliamento, altre ancora
chissà dove.
Per me, che venivo da
Atripalda, la prima locazione era più comoda, il filobus si
fermava in Piazza della Libertà (che, all’epoca, era
attraversata, al centro, dalla strada ed era contornata da uno
stretto filare di lecci). Bastava risalire via De Sanctis, la
“Salita della posta”, e si era già arrivati. Giù, al
capolinea, stazionavano le carrozze dei vetturini, con i
cavalli che mangiavano la biada da un piccolo sacchetto appeso
dietro alle orecchie. All’angolo di via Cascino un piccolo
chiosco per la riparazione delle stilografiche e una ridotta
vendita di matite e penne a sfera. Lungo la salita di via De
Sanctis, sulla destra, la piccola pizzeria Ronca e, a
sinistra, il severo bugnato del muro esterno del Banco di
Napoli, sul quale la mano di uno sconosciuto aveva scritto con
un pennellino “RENE’”, omaggio silenzioso a una ignota ragazza
ormai svanita nel nulla.
In classe, la sezione C, il
professore Sauro, dal patriottico cognome, incallito fumatore
oltre ogni dire di “Esportazioni senza filtro” che nel tempo
libero concessogli durante i compiti in classe si impegnava a
grattare, con il bordo vetrato della scatola di cerini, il
nero del catrame che si era impossessato delle sue dita. Poi
la “terribile” signorina Barbieri, la docente di matematica,
la signora Santoro, dolce professoressa di francese. E via
via, tutti gli altri, il professor Palumbo, di disegno, il
professor Pecora, di educazione fisica e Don Guido, il docente
di religione, detto, chissà perché, don Chitarrella.
Cosa succede alle aule
durante le vacanze? Me lo sono chiesto tante volte, negli
anni, passando davanti al liceo Colletta, al Corso, in qualche
fresco giorno d’estate. Ho immaginato, seduto sul muro esterno
della villa (chi, frequentando il liceo classico, non lo ha
fatto?), le classi silenziose, all’interno; ho inventato, la
sera, che si affollassero di ombre, alunni del passato che
ritornavano per riabbracciarsi e riabbracciare, senza più
esitazioni, quei docenti che avevano tanto temuto.
Ho frequentato lì il
ginnasio, nell’ultima aula a sinistra, per poi passare al
primo piano, l’empireo di chi stava al liceo. Ecco, la sera,
quelle aule, mi illudo, si ripopolano di ombre sedute nei
banchi, persone che non ci sono più e altre che, come me più
fortunate, continuano a ripetersi “allora, una di queste
sere…”, come se la vita fosse senza fine, come gli anni di
Simak.
Ombre, dicevo, spesso mute,
talvolta di primo piano, fiere dell’effimero e inutile
successo della loro vita, lemuri avvezzi a una vita da
gregario e finti giganti illusi nella loro corsa dietro al
vento. E con loro, docenti, bidelli, il preside De Feo che,
come un basilisco, dalla sommità delle scale interne, ci
guardava sfilare per raggiungere le nostre aule.
Ecco, io lo immagino così, il
mio vecchio liceo, nei pomeriggi d’estate, quando non c’è
nessuno nei corridoi, piccolo mondo incantato che allora mi
pareva una galassia, dove ho immaginato i professori decidere
chiusi nel loro castello fatato, dei dell’Olimpo che
distribuivano vita o morte, della sorte degli alunni. Dove si
spera ci sia ancora un professor Balla, quello del film di
Pupi Avati, che ha sempre il coraggio di gridare “La smetta”
al preside, lui, il più timido e ingenuo della scuola, per
difendere una professoressa, e affronta il licenziamento
felice degli applausi dei suoi alunni.
E allora? Le vacanze, come
una volta, ritornano. Con il sole in faccia, il vento nei
capelli, una bicicletta rossa, un pomeriggio al cinema; due
film cento lire. E se quelle cento lire non ci sono, che
importa? Alla fine, basta averlo sognato!
G. &
R. De Masi