L'abbattimento della Dogana
di Franco Festa
La mattina in cui abbatterono la Dogana nessuno ci fece caso. Era una ditta specializzata e non sollevò troppa polvere. Solo una signora, all’ultimo piano di un palazzo vicino, protestò, ma a bassa voce, prendendo a calci il cane. Poi si affacciò e respirò. Era uno spazio proprio bello, quello che si era venuto a creare. Il marito, dal divano, la richiamò. C’era la replica della trasmissione di Pupo che cominciava, era un portento vederla sulla nuova Tv di 50 pollici a Led. In fondo, le disse, quello “scarrupato” era un obbrobrio. Quelli che scorrevano in fila per lo Stretto con l’auto diedero uno sguardo distratto, ma non tanto al monumento che era venuto giù, non avevano mai capito cosa fosse quella schifezza, ma al nuovo locale, prima invisibile là dietro ed ora con vista sullo spiazzo. “Dobbiamo andarci una sera, a bere qualcosa”, disse la giovane all’amica, mentre con le dita si toccava fiera il tatuaggio fresco sul culo . L’altra non guardò neppure, era annoiata di sé, della sua vita, di quella giornata che non passava mai, di quella città in cui non c’era mai nulla da fare. Due ragazzini per poco non finivano sotto il camion che portava via le macerie, erano intenti a giocare con il Nintendo e non ci avevano fatto caso. Il giovane pittore Montiterra era già pronto con il suo cavalletto. Era stanco di disegnare tarocchi e illustrazioni per sbarcare il lunario, già immaginava il bianco e il verde tirati sul quadro, a grandi pennellate, e il titolo dell’opera: la città respira. Il Comune o la Provincia l’avrebbero certo acquistato, c’era gente che di cornici ne capiva. Nel bar all’angolo già si brindava. Nel nuovo palazzo di vetro che sarebbe stato costruito in quello spazio - in città vi era una ditta capace di costruire in tutti i buchi residui in poche settimane - sarebbe venuta tanta gente e gli affari sarebbero stati finalmente a livello. C’era solo quell’obelisco, così avevano detto che si chiamasse, ma si poteva spostare da qualche parte, caso mai vicino a quella stupida fontana più giù, e pulizia sarebbe stata fatta. Un anziano, a dire il vero, borbottava per quello che capitava sotto i suoi occhi. Per fortuna il funzionario, più in là, spiegava a tutti i cittadini quello che in quel posto sarebbe stato realizzato, mostrando il progetto di un gruppo di giovani architetti che tanto amavano la loro città. Intorno al palazzo, a vetri di Murano, sarebbe venuto su un favoloso incrocio tra le colonne di cemento di piazza Macello, questa volta decorate di muschio africano, e la piazza di Valle, tutta in pietra bianca. Così i cittadini che non potevano permettersi il mare si sarebbero potuti abbronzare lo stesso. La gente ascoltava e applaudiva, qualcuno ne approfittava per chiedere un favore, tutti tornavano a casa commossi e contenti. Anche al giovane rumeno, che finora aveva dormito tra quelle macerie, sotto la vecchia scalinata del cinema che prima portava in galleria, fu garantito un posto letto nel Mercatone. Quando l’ultimo camion andò via era ormai ora di pranzo e non c’era più nessuno per la strada: gli avellinesi, si sa, sono rispettosi delle tradizioni. Solo nell’angolo che portava verso il Duomo era rimasta triste e in silenzio una giovane zingara. Le piaceva, l’armonia della facciata che c’era prima, le lunette, le nicchie, anche se erano vuote e desolate; le piaceva ripensare a ciò che quel luogo era stato: la mamma, quando era piccola a Fornelle, glielo aveva raccontato tante volte. Si sentiva a suo agio, in quel posto, lei che era capace di ascoltare le voci degli operai, artigiani, mugnai che un giorno l’avevano affollato. C’erano ancora, quelle voci,erano sempre state lì, anche se nessuno se n’era mai accorto.Ora doveva tenere le mani premute sulle orecchie, per non essere sopraffatta dalle grida di dolore che le arrivavano fino al cuore. Un signore passò, la vide in quello stato e le mise cinquanta centesimi in mano. Poi si allontanò, felice del suo spirito caritatevole e del suo nuovo vestito Armani.