Non so quante volte l’ho detto e quante ancora lo ripeterò - un po’ per vezzo un po’ per verità - che non sono un’avellinese doc. Sì, ci sono nata, è vero, ma perché mio nonno faceva il Segretario comunale e gli capitò di arrivare qui.

Purtroppo, mi sento, per tradizioni ed antropologia, una dell’oriente d’Irpinia, anzi più ad est: sconfino, insomma. I miei avi percorrevano la via Egnatia, dall’una e dall’altra parte del Canale d’Otranto.

Dunque, dicevo, Avellino non la amo in senso assoluto. Ho viaggiato molto e per questo riesco a ritornarci: bene o male, non è peggiore di altre cittadine meridionali che stanno sprofondando sociologicamente ed economicamente. Anche se la deriva sociologica è comune – di questi tempi – a tutto il Paese. Lo diciamo ancora abbastanza sommessamente solo perché quest’anno si celebrano i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia e – vivaddio - non siamo leghisti.

Sono abituata a vivere qui: un posto può valere un altro: è tutta questione di abitudine. La conformazione allungata penalizza parecchio la nostra città, che vede le zone periferiche oltremodo sofferenti. Cremona, per esempio, è tutta tonda e le distanze (o le vicinanze) dal centro contano.

Devo parlare della Dogana, già. Be’, ci abito pressoché vicino, da circa una ventina d’anni. Da che ho coscienza della piccola topografia cittadina, anche prima dell’incendio e pure prima del Terremoto non è che poi brillava come simbolo. Per quelli della mia generazione, i riferimenti geolocalizzatori si fermavano allo “Stretto”, un ‘oltre’ praticamente non esisteva, non contava e, quindi, non significava. Per cui, la Dogana (o il Cinema Umberto, credo si chiamasse così) era ignorata. O forse anche ignota.

Quando era Cinema non ci sono mai andata, per esempio. Mi dicevano che aveva un tetto mobile che d’estate poteva aprirsi. Non so sia vero, forse sto raccontando una leggenda.

Perché – ed ecco il punto – neanche noi di Avellino (o che vi siamo nati o ci abitiamo da tanto) mica conosciamo le nostre cose.

Adesso che giro molto l’Irpinia (per lavoro e/o per amore del reportage giornalistico) mi sono resa conto di una circostanza fondamentale, che ci condanna antropologicamente: noi non conosciamo quasi niente delle nostre terre. Ma neanche gli abitanti degli stessi paesini riescono ad avere piena coscienza e conoscenza dei loro luoghi. Salvo, forse, quando li sentono minacciati irrimediabilmente.                    

Io, la Dogana non riesco ad amarla per quello che è adesso, mi sembra un’ovvietà, forse anche crudele. Ma - e l’ho confidato anche a Franco (Festa) animatore di questa iniziativa – è pure altrettanto ovvio che amerei vederla rinata, con uno scopo sociale, culturale o artistico. Mi piacerebbe che ci mettessero tanto cristallo e tante luci dentro, piena di quadri e di opere artistiche, una sorta di galleria permanente, se non una vera e propria pinacoteca. Non un Museo, perché quello c’è già, ma un posto dove poter avere la confidenza con il bello.

Ecco, una Dogana così l’amerei senz’altro.

 

                                                                                                                   Marika Borrelli

 

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