In fase conclusiva i lavori di restauro

dell’antico convento dei padri Domenicani dell’Annunziata.

 

Come per magia le rondini tornano a volare sotto l’antico tetto.           di    Pasquale Matarazzo

 

Per anni, il palazzo della Prefettura di Avellino è stato oggetto di lavori di restauro.

Chiuso dalle impalcature ha visto ingessata la sua storia secolare che raccontava di un antico convento dei Padri Domenicani e di un antica chiesa, la SS. Annunziata, abbattuta purtroppo nel 1938 e di cui ne abbiamo già raccontato l’affascinante storia che fin dalle fondamenta ha continuato a riservarci sorprese.

Tenterò, tout court, senza farmi trascinare dalla lunga storia, di ristorare la stessa e aggiungere un poco di poesia per far capire che la città va vissuta in ogni suo aspetto perché rappresentativo di un identità che conosciuta può farci vivere meglio il presente.

Nel tardo medioevo la città di Avellino, chiusa tra le sue mura, tendeva ad espandersi al di fuori del tracciato urbano, verso il così detto “Largo”.

Gli ordini conventuali e soprattutto, francescani e domenicani, si installarono in zone periferiche in “connessione con aree di recente immigrazione o di espansione” o in vicinanza di porte urbiche o strade che portassero verso l’agro a causa della raggiunta saturazione edilizia del borgo fortificato (Collina della Terra).

La scelta dell’ubicazione, del convento domenicano con l’annessa chiesa dell’Annunziata, decisamente extra moenia era collegata quindi ad intenzioni “pianificatrici” finalizzati alla formazione di nuovi borghi residenziali.

Le prime notizie dei domenicani ad Avellino risalgono verso la fine degli anni 20 del 500, quindi la chiesa (che non era ancora quella dell’Annunziata ma, probabilmente, una chiesetta suburbana di proprietà della Confraternita dell’annunziata del Duomo) con i locali e l’orto annessi, già adibiti ad ospedale dal 1502, vennero ceduti al padre Federico Montemurro affinché vi insediasse un monastero domenicano, che ne conservò l’omonima denominazione: Convento della SS. Annunziata dei Padri Predicatori. A sostegno economico di tale operazione, come documentato dal Bellabona nel 1656, intervennero i conti di Avellino, i nobili italo spagnoli De Cardona che nell’ottica di devozione e mecenatismo del loro illuminato governo (1513-1563), furono evidentemente i veri artefici della prestigiosa venuta dei Padri dell’Ordine dei predicatori in città.

L’insediamento avellinese, era aperto ad attività e modalità di vita più consone all’ideale apostolico e di “servizio”, a tutto vantaggio del “pubblico” della chiesa locale e degli stessi vescovi diocesani. Se aggiungiamo poi che al suo fondatore predicante, segue il sostegno economico e politico dei potenti di Avellino, possiamo dire che vi fu il confluire delle due forze in campo per vedere realizzato il disegno di una erectio aperta ad un istituto mendicante, ben diverso dai cenobi monastici dediti alla vita contemplativa, come i Verginiani, presenti nell’area a breve distanza dalla città.

Le vicende dell’ ordine religioso si contraddistinguono per accuratezza di formulazione e ricchezza di particolari, trasmettendoci quindi, oltre che l’immagine di una comunità religiosa oculatamente amministrata, preziose notizie sul paesaggio agrario, sulle culture, sulle forme di gestione e sui rapporti produttivi ed economico sociali tra proprietà e coltivatori.

I primi segni premonitori dell’inarrestabile crisi conventuale dei domenicani si ebbero nell’ultimo decennio del Settecento quando, nell’imperversare delle ideologie rivoluzionarie, provenienti dalla Francia, e i non pochi tentennamenti del clero in materia di fede e di morale, si estinsero le due attività specifiche della dottrina domenicana: la predicazione e l’insegnamento scolastico. Scossi questi due pilastri, la vita interna decadde notevolmente. La soppressione del convento, già realizzata di fatto, restava soltanto da sancire giuridicamente e formalmente. Se furono inizialmente fisiologiche le cause del declino dei domenicani verso la metà del Settecento, gli avvenimenti storici furono quindi decisivi per il completo tracollo, dopo secoli di gloriosa vita pastorale in città: infatti con il nuovo regime si importarono anche in Italia meridionale i modelli francesi dell’organizzazione sociale, sconvolgendo quella che per secoli era stato il modello feudale. Con la legge dell’8 agosto 1806, si stabilì la nuova divisione delle province, ed Avellino diventò capoluogo di tutto l’antico comprensorio del Principato Ultra, che fino a quel momento aveva avuto come sede ufficiale Montefusco.

            Il capo della provincia fu l’“intendente” con un Consiglio di Intendenza, mentre la giustizia fu amministrata da un tribunale civile e da un tribunale penale. Le sorti di molti palazzi feudali in città, da questo momento in poi, percorreranno una strada diversa, sopravvivendo sì ai saccheggi e alle rovine, ma in molti casi perdendo le originarie connotazioni a causa delle innumerevoli ristrutturazioni e adeguamenti per le nuove destinazioni d’uso. Se il palazzo dei principi Caracciolo, al Largo, diventò subito il palazzo dei Tribunali, di lì a pochissimo tempo anche il convento domenicano fu destinato ad essere convertito ad altra funzione: infatti già nell’estate del 1806 le autorità francesi pensavano di estromettere i frati per avere a disposizione l’edificio conventuale ed insediarvi gli uffici dell’Intendenza. Fino al 1807 i religiosi erano ancora fra quelle mura e vi rimasero solo per la generosa offerta del vescovo di Avellino mons. Sebastiano De Rosa che destinò una parte del proprio palazzo vescovile  per i funzionari dell’Intendenza.

Il primo intendente di Avellino fu Giacomo Mazas, che nel pieno dell’incarico assunto, il 28 agosto trasmetteva al ministro dell’Interno la relazione  degli architetti Tango e Roca, che prevedeva lavori per una spesa di 3000 ducati “per ridursi all’uso designato” il convento, chiedendo l’autorizzazione ad iniziare subito i lavori.

La vita dei domenicani in città si ferma quindi, al luglio 1807, dopo 273 anni di vita vissuta al fianco di una comunità sempre in fermento e in crescita; rimarrà solo il convento, ormai trasformato radicalmente in sede della Prefettura, a testimoniare l’epoca dell’Ordine dei Predicatori in Avellino. A questa fase ottocentesca farà seguito, a partire dal primo dopoguerra, l’ampio dibattito inerente agli interventi di risanamento e di pianificazione urbana della città, in cui si configurò a più riprese la volontà di abbattere la chiesa del SS. Rosario e il complesso monastico di S. Francesco. Infatti le direttive del Piano Valle del 1933 resero operative alcune decisioni già avvenute nel 1926, dando vita a quella tematica di rinnovamento urbano scaturita da persistenti e ricorrenti argomentazioni e motivazioni a suo sostegno.       

             

Oltre al blocco volumetrico del piano aggiunto, i lavori degli anni ‘30 si caratterizzano soprattutto per il totale cambiamento delle facciate che prospettano sul corso Vittorio Emanuele II e verso Piazza Libertà.

Il palazzo della Prefettura acquista la sua definitiva configurazione nei lavori degli anni 50 che riguardavano, in generale, un vasto piano di ricostruzione della città varato all’indomani della seconda guerra mondiale con il piano del 1948. Il vuoto lasciato dalla demolizione della chiesa del Rosario, e rimasto inalterato per circa dieci anni, fu colmato con la costruzione dell’ultimo blocco di fabbrica a completamento dell’intero edificio, e cioè sul lato est prospettante su piazza Libertà. Ma nulla degno di nota è descrivibile per questi lavori se non la prosecuzione con lo stesso stile architettonico di quello esistente, con l’applicazione delle doppie lesene estetiche e degli altri apparati ornamentali. Questi lavori definiranno completamente l’intera struttura e rimarrà così come oggi la vediamo, non subendo cambiamenti importanti almeno fino agli attuali in corso, resisi necessari a causa del terremoto del 1980. Questi lavori chiudono l’innumerevole serie di trasformazioni e restauri che ha subito l’ex convento domenicano a partire dai primi anni del XVI secolo e se la prima parte ha riguardato strutture interne ed esterne alla parte più recente dell’edificio la seconda parte ha dato finalmente giustizia la storia consegnandoci un gioiello che era nascosto da intonaco e impalcature.

Fin qui la storia necessaria per inquadrare il luogo e le sue vicissitudini.

Ma non solo la storia può raccontarci un luogo anche gli uomini che la percorrono possono tramandarne o meno ai nostri giorni la conoscenza e trasmetterci delle emozioni come quelle che ho provato io quando, una domenica pomeriggio, ho assistito a qualcosa di straordinario.

Portatomi, nelle prime ore del giorno, a fotografare le caratteristiche architettoniche del restauro che ha interessato la facciata del monastero e le strutture interne, ho verificato che, tolta l’impalcatura, la struttura è tornata all’antico splendore, con il recupero degli splendidi elementi architettonici del cornicione del tetto, in mensole di tufo e cotto, i portali di ingresso in pietra locale e le splendide cornici delle finestre in mensole di tufo sovrapposte da mattonelle in cotto.

Mentre consumavo la pellicola, pardon, siamo nell’epoca digitale, ma è più poetico, non potevo immaginare di immortalare un immagine che avrebbe ricostruito un Genius Loci, oramai perso nella notte dei tempi.

Nelle prime ore del mattino, prima che il sole si erga alto nel cielo, si nota un volteggiare continuo di sciami di rondini che lanciano il loro grido all’ombra dei vecchi tetti del convento, come a consumare un antico rito di genetica memoria.

Questo messaggio è una speranza: l’uomo, nella sua sfrenata corsa all’antropizzazione, spesso, interviene senza conoscere, causando disastri, ma è proprio l’uomo che ripristinando e ripensando l’ equilibrio: Uomo, Natura, Territorio, Ambiente e rispettando l’ordine logico: prima conoscere poi intervenire, che può riparare al torto subito dalla storia e dalla natura, recuperando il tempo perduto, affinché, avendo maggiore rispetto per il passato, si possa costruire un futuro migliore.

 

 

 

 

 

 

 

 

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