EMANUELE PAPA   di Francesco Acone

Emanuele Papa fu a capo dell’ “Imbriani” dalla fine della guerra all’ inizio del 1956, in anni difficili e grami, che videro tuttavia un vecchio socialista come lui e giovani della mia generazione, tra i venti ed i trent’anni, vivere una straordinaria e irripetibile stagione di impegno civile e di entusiasmo, rapiti com’eravamo nella speranza di rifondare su basi di serietà, di onestà ed anche di consapevole modestia, una convivenza civile che si richiamasse ai ritrovati valori della giustizia sociale e della libertà politica, svuotati e distrutti dal fascismo.

Fu negli anni 1954-56 che la mia vita, sia sul piano umano che su quello professionale, o per meglio dire, i miei primi fecondi anni coincisero con gli ultimi della vita del preside Papa.
Approdai all’istituto Magistrale il primo di ottobre 1954, incaricato dell’insegnamento del Latino e della Storia, in virtù dell’abilitazione recentemente conseguita. Fui accolto come un figlio dal burbero ma generoso preside, del quale ben conoscevo le qualità umane e professionali, avendo egli insegnato Matematica per moltissimi anni in Avellino a generazioni di giovani, molti dei quali miei coetanei: ebbi da lui comprensione ed indulgenza, ma ne meritai talvolta qualche brusco rabbuffo.
Tuttavia la sua generosità e la nobiltà del suo animo si manifestarono, in misura inaspettata e commovente, nella primavera del ’55, quando, insieme col collega Marciano Stanco, anch’egli allora docente dell’”Imbriani”, risultai ammesso alle prove orali del concorso per l’insegnamento del Latino e del Greco nei licei classici, cattedra che allora rappresentava il traguardo più prestigioso cui potesse aspirare un laureato in Lettere. Né Stanco né io informammo il preside dell’ammissione ottenuta, un po’ per nativa riservatezza un po’ anche nel timore di apparire vanagloriosi- non eravamo neanche in venti gli ammessi agli orali in tutto il Paese- e continuammo a lavorare come se non fosse accaduto niente.

Quando il preside lo seppe, ci convocò in presidenza e ci impartì una lezione d saper vivere che noi subimmo come fra Cristoforo l’ira di don Rodrigo, ma.. il giorno dopo ne ricevemmo un’altra lezione, quando leggemmo nel registro delle comunicazioni interne le parole con le quali il preside informava i colleghi del nostro successo, che egli considerava un vanto per tutto l’istituto. Questo era I ‘uomo.
E non basta: ci chiamò di nuovo nel suo ufficio e, con piglio ben di- verso, ci suggerì il modo di ottenere (da lui) una vacanza dell’insegnamento che ci consentisse di perfezionare la preparazione di cui avremmo dovuto di lì a poco dare prova: un padre affettuoso non avrebbe potuto fare di più.
Iniziò ben presto un nuovo anno scolastico, i concorsi banditi nel ‘53 venivano via via espletati, a noi I’avvenire sorrideva, ma la salute del preside Papa, già uomo di forte fibra, cominciava a dare segnali allarmanti di deperimento, e la sua cara immagine paterna. di giorno in giorno, intristiva in un  preoccupante atteggiamento di fissità: sempre più spesso Io si sorprendeva con lo sguardo smarrito nel vuoto.

Verso la metà di gennaio, eravamo nel 56, essendo maturata per me la scadenza di un’ altra prova di concorso, andai a salutarlo prima di partire per Roma: mi abbracciò, mi augurò di superare quello che sarebbe stato il mio ultimo esame e mi congedò infine, come soleva fare quando il visitatore era ormai sulla soglia, con un cenno affettuoso della mano. Non l’avrei rivisto più.

Soltanto al mio ritorno, alcuni giorni dopo - quasi tutte le case allora erano sfornite di telefono, per cui le comunicazioni non avevano né la frequenza né la rapidità di oggi - appresi da mio padre che il preside Emanuele Papa era stato colto da malore ed era spirato qualche ora dopo avermi dato l’ultimo segno della sua bontà e del suo affetto. Rimasi un altro anno all’ ‘‘Imbriani’’: vi sarei tornato da preside nel 1982.