Il primo ricordo della Dogana risale al ’56, l’anno di “Guerra e Pace” . Un cast eccezionale: Audrey Hempburn, Henry Fonda, Vittorio Gasmann, Mel Ferrer, Anita Ekeberg. Durata 182 min. Un evento.
Angela, la giovane donna che veniva dalla provincia e che aiutava a casa, espresse il desiderio di vederlo e a me, benché non arrivassi ai sei anni, toccò accompagnarla. Conoscevo bene la zona dove ero nato e abitavo ed ero abbastanza intraprendente anzi, avendo già dimostrato di non aver paura di allontanarmi da solo, per scongiurare questa eventualità i miei avevano messo a guardia dello spazio assegnatomi e cioè vicolo 1° Conservatorio (dove abitavamo) e lo slargo antistante il Convento delle Oblate (‘ncoppa ‘e monache) dei custodi virtuali ma che in effetti erano personaggi reali di cui constatavo quotidianamente l’esistenza che avevano il compito di impedire i miei eventuali sconfinamenti. Verso lo Stretto, sul vicolo, vigilava Sciaraballo, un mendicante che bazzicava lo scarrupato del bombardamento, sparito con la ricostruzione del lato sinistro di via Nappi, scendendo verso la dogana, dei primi anni 60. Allora fu chiusa definitivamente l’uscita di Vicolo 2° Conservatorio (sullo stesso lato e parallelo a vicolo 1°) precludendo così l’accesso diretto dallo stretto al forno di Imbimbo che ancora per qualche anno continuò a lavorare gratificando casa mia e tutte quelle che affacciavano sul vicolo del profumo fragrante del pane fresco.
Con le macerie sarebbe scomparso anche Sciaraballo che, a detta dei miei, acchiappava i bambini soli per farli scomparire nello scarrupato. L’accesso allo slargo antistante la scuola d’avviamento e della tipografia Pergola, dove i più grandi giocavano a pallone e dove io morivo dalla voglia di andare, era controllato dal portinaio del palazzo all’angolo che arrotondava vendendo le stesse barchetelle di liquerizia (una lira l’una) che però io compravo da Smeraldo, il rilegatore, che stava giusto venti metri prima, proprio attaccato all’ingresso del convento dove frequentavo l’asilo e dove, modestamente, andavo non accompagnato. Mi odiava, a detta di mamma, per il semplice fatto che non ero suo cliente; per vicolo Posillipo non scendevo perché ci stava sempre ‘na puzza e fave cotte e l’eventuale fuga lungo via Oblate per la Beneventana e per andare dietro la Dogana sarebbe stata intercettata da Melella a scigna che, sempre a detta dei miei, mi avrebbe portato dalla serengara che abitava nel suo stesso palazzo (Melella stava nel basso) per farmi fare la siringa. Era la cosa che temevo di più anche perché per via di una cura ricostituente cui ero stato sottoposto, ‘a serengara l’avevo provata davvero e…. faceva male.
Decisi che al cinema ci saremmo arrivati dallo stretto riducendo al minimo un eventuale contatto con Sciaraballo percorrendo il lato destro, quello con i negozi. Dando la mano ad Angela (ma ero io che conducevo lei) passai davanti alla casa e potea di Don Antonio ‘o faligname, superai baldanzosamente e …. velocemente l’ingresso ro scarrupato, attraversai lo stretto proprio davanti al negozio di calzature di Cammino e, ci avviammo verso la dogana. Un tragitto breve che io ricordo lunghissimo e che mi permise di fare da guida alla mia accompagnatrice. Le mostrai il negozio di tessuti di Tarantino quello di Festa che vendeva lampadine e piccoli elettrodomestici tra cui un tostapane uguale a quello che si vedeva per televisione nei telefilm americani, Vecchione il cartolaio dove controllai se avesse ancora il portamatite in legno a doppio scomparto che mi era stato promesso per il mio esordio alle elementari del Palazzotto. Uno sguardo attraverso l’arco di via Carmine all’ immancabile sedia di paglia unta e bisunta con su esposto il piatto di baccalà fritto con i peperoni verdi che segnalava la Cantina e zì monaco, e poi i negozi di Famiglietti, di Bertini, quello di biancheria di Pelosi, la Farmacia Amodeo e finalmente la Piazza con “al Mio Bar” di De Lellis dove dovevamo comperare dei generi di conforto. Qui mostrai ad Angela la sala interna con il televisore posizionato su un carrello altissimo per consentire la visione (con consumazione) a chi ancora non aveva l’apparecchio in casa e dove il cameriere, per regolare il volume e la sintonia secondo il mutevole desiderio degli spettatori era costretto a salire continuamente (maledicendo i convenuti surdi e cecati) su una sedia. Chiudeva all’angolo con corso Umberto Iannaccone ‘o gioielliere che a Natale, anche allora, affidava l’esposizione dei preziosi a bellissimi pastori che non sapevo fossero del ‘700 napoletano. Data l’ora (primo spettacolo) non c’era da fare la fila per il biglietto e quindi potemmo comprare ‘e semienti da Pasquale ‘e Rosina e finalmente entrare. Il cassiere era Smeraldo, il rilegatore e ’ncoppa ‘e monache, che di pomeriggio lavorava all’Umberto. La cassa, entrando sulla destra e ricavata nel sottoscala che portava alla galleria, interrompeva con la sua apertura la teoria di specchi scuri su cui venivano attaccati i manifesti delle future proiezioni e si trovava immediatamente prima dell’ alta transenna di tubolari di acciaio cromato che divideva lo spazio dell’ingresso e che, scorrendo l’uno nell’altro dava la possibilità alla maschera di restringere l’accesso per un controllo puntuale dei biglietti. A destra la scala a doppia rampa che portava in galleria e a sinistra l’ingresso della platea. In fondo, di fronte all’ingresso, l’ufficio della proprietà, e sulla destra la scala che scendeva giù ai servizi. Conoscevo il luogo eppure era come se lo vedessi per la prima volta. Dopo la proiezione mi sentivo un altro. Gli atti di coraggio, le battaglie le cariche di cavalleria mi avevano elettrizzato. Decisi che potevo anche affrontare Melella ‘a scigna e, considerato che per evitare intersezioni tra chi entrava e chi usciva era stata aperta la porta della sala che dava sul retro, per il ritorno a casa scelsi di salire per Strettola della Corte dove stava il salone di don Gennaro Montano e dove abitava, oramai vecchia Maria ‘a cevozara, la decana dei sementari avellinesi che, ritirandosi dall’attività, aveva liberato il posto, per l’appunto, a Pasquale che però spesso, per scarso spirito combattivo, lasciava che Genoveffa, la moglie del sagrestano del Duomo, occupasse l’ottimo posto vicino all’entrata del cinema per vendere ‘e verole. All’incrocio con via Oblate dove abitava l’ostetrica Barbieri girammo a sinistra sorpassando senza timore il vascio di Melella. E fu forse la prima volta che la guardai bene. Era una donnina con il volto devastato dalle rughe, con capelli grigi, vestita di nero, con una vocina stridente.
Non mi degnò neanche di uno sguardo e, in verità, ci restai male, forse anche di più di quanto mi accorsi di come mi aveva fatto fesso il terzo dei Scilla e Cariddi, il portiere del palazzo all’angolo. Infatti avendo superato Sciaraballo e Melella decisi di affrontare anche questa terza prova. Andai a comprarmi le barchetelle da lui. All’asilo mi accorsi che, su cinque pezzi, me ne aveva dato due rotti a metà facendomi pagare quello che normalmente Smeraldo mi regalava. Aveva ragione mamma. Mi odiava perché non ero suo cliente.