I Fratelli Caso

di Fiore Candelmo

Nella nostra provincia, e specialmente in città, ben poche sono state le famiglie che imprenditorialmente hanno avuto un ruolo di particolare rilievo nella economia locale. Quella dei Fratelli Caso è stata senza dubbio una di queste poche.

A partire dall'antenato Vincenzo, maestro falegname, come si legge in alcuni vecchi documenti di due secoli fa, la storia della famiglia Caso si dipana attorno al legno, alla sua lavorazione e alla sua poliedrica disposizione di materiale povero ma ricchissimo di potenzialità. Insieme con i figli Sabino, Carmine, Alfonso, Vincenzo (a quei tempi un figlio poteva avere lo stesso nome del padre) e Salvatore, egli avviò la produzione di botti per il vino. Successivamente Vincenzo jr., probabilmente per le difficoltà economiche (siamo intorno all'unità d'Italia), emigra negli Stati Uniti e di lui si perdono le tracce così come, al momento, la storia degli altri fratelli è nebulosa. Il lavoro passò a Sabino che, a buona ragione, può essere considerato il vero capostipite della famiglia essendo il padre dei più famosi fratelli Caso e iniziatore dello sviluppo imprenditoriale.

L'attività come dicevamo si sviluppò in famiglia, e inizialmente padre e figli continuarono la produzione di botti. Nella sede della fabbrica sulla Variante, per qualche anno sono stati ancora visibili, in una sorta di museo del lavoro, gli strumenti artigianali che consentivano di preparare con la dovuta precisione i pezzi che costituivano la botte, precisione necessaria per garantire la tenuta a pressione del mosto. Il fallimento della Caso S.p.A. nel dopo terremoto ha purtroppo disperso questo patrimonio. Di tanto in tanto però essi si allargavano a produrre altro, e gli infissi esterni ed interni lentamente divennero un prodotto molto richiesto. La IIa guerra mondiale non rallentò più di tanto la produzione, anche se i fratelli furono costretti alla leva. Fortunatamente per loro, la sorte fu benigna e tornarono tutti a casa sani e salvi.

Era evidente che, alla luce della ricostruzione post bellica, si aprivano nuovi scenari economici, con l'incalzare dell'edilizia. Il Villaggio Picarelli, dove la famiglia era nata, dove lavorava e spendeva la sua vita, era diventato troppo stretto e i fratelli Salvatore, Olindo, Giovanni, Sabino e Fiore (Alfonso aveva deciso di emigrare al nord e diventerà un imprenditore nel settore tipografico a Vigevano, Maria era andata sposa ad un aviere di Tivoli e Adelina era morta a meno di 18 anni di età con la purtroppo famosa "spagnola") decisero di fare il gran passo e di trasferirsi ad Avellino dove, in Via Circumvallazione, era disponibile un vasto terreno (attraversato dal torrente Rio Cupo, poi coperto con un condotto in cemento e oggi ridotto a nient'altro che una vera e propria fogna) utilizzabile per costruirvi una fabbrica. L'acquisto avvenne insieme ai cugini Errico (figlio di Salvatore) e Ciro (figlio di Alfonso) Caso. Qui l'atto olografo originale.

Come si legge nello "strumento", il terreno, di proprietà della signora Elena De Concilii fu Pietrogiacomo, era un fondo rustico denominato "Recupe a Cappuccini", proprio per la presenza del torrente Rio Cupo. Qui nacque quella che tutti conosciamo come fabbrica dei Fratelli Caso, fondata sostanzialmente dai figli di quel Sabino che, ancora per qualche anno, collaborerà con loro nello stabilimento.

Qui sopra vediamo proprio Sabino Caso, il capostipite, ritratto al lavoro. Sulla sinistra si intravede, per metà volto, Alfonso, uno dei suoi figli, che emigrerà al nord.

La crescita della ditta Fratelli Caso s.d.f. divenne turbinosa. Negli anni del boom edilizio anche Avellino viene travolta dal concetto che il mattone è buono e bello (e ne soffriamo le conseguenze ancora oggi), e la facilità di acquisto degli appartamenti consentiva ai costruttori di ordinare infissi esterni ed interni in gran quantità. La fabbrica crebbe e arrivò ad esportare anche fuori dai confini italiani la sua produzione. Con la crescita naturalmente aumentò anche il numero dei dipendenti che, nel periodo di massimo splendore, erano alcune centinaia. Ciò consentì a molte famiglie di conoscere un certo benessere economico. E naturalmente la fabbrica riscosse anche l'apprezzamento dei politici di turno che più volte la visitarono complimentandosi con la proprietà.

Questa foto ritrae quattro dei cinque fratelli Caso (manca Sabino, riservato al punto che non volle mai sposarsi) ripresi mentre sono in visita ad un cantiere. Da sinistra si riconoscono Giovanni, Olindo, Salvatore e Fiore. I loro abiti descrivono meglio di ogni altra parola i caratteri di questi self-made men, che, schivi e riservati come pochi, si sono dedicati pressocchè totalmente a due sole attività: il lavoro e la famiglia. Con l'eccezione lodevole di Fiore che, sfruttando la propria naturale e straordinaria propensione a mantenere i rapporti umani, costituiva l'immagine all'esterno della ditta, il riferimento verso clienti e fornitori con i quali intratteneva spesso rapporti che andavano al di la di un semplice interesse economico e che rimanevano negli anni di stima e collaborazione anche solo grazie ad una stretta di mano, non certamente con carte bollate e pandette, gli altri tenevano quello che oggi chiameremmo "understatement", allora più semplicemente una naturale propensione al lavoro e una grande riservatezza.

Questa riservatezza era propria un pò di tutti i fratelli Caso. Se Giovanni era noto per il carattere gioviale e la facilità alla battuta di spirito, se Fiore era capace di legare, da buon politico (fu consigliere comunale e assessore in più consiliature), con quasi tutti coloro che incontrava, di mio nonno Olindo non ricordo che abbia mai fatto una vacanza, se si eccettua, negli utlimi anni, qualche cura inalatoria alle terme di Castellammare; anzi, dubito che avesse anche con sè il concetto di "ferie", se non per il fatto che, in estate, tornava spesso a trovarlo il fratello Alfonso da Vigevano, dove aveva una avviata stamperia e contratti con grosse ditte di maglieria per le quali preparava le etichette, e gli operai lasciavano il lavoro per qualche tempo. Mia nonna Ersilia, sua moglie, conobbe il mare che aveva oltre quarant'anni essendo stata invitata ad un matrimonio in Costiera Amalfitana. Di più: credo che ben raramente abbiano mai fatto una passeggiata per il Corso, concettualmente e fisicamente lontano dal proprio sentire e dalle proprie abitudini. E quando la fabbrica si doveva fermare, e gli operai erano assenti, si lavorava alla preparazione della conserva di pomodoro, alle "bottiglie", che erano religiosamente allestite nei cortili deserti dello stabilimento, insolitamente silenzioso e quasi spettralmente abbandonato.

Con i nonni in testa, i loro figli (Sabino jr. Carmelina e Tecla) e generi, e i nipoti tutti, l'operazione costituiva non un obbligo ma una vera e propria festa di famiglia, disciplinata da regole ferree, sulle quali non si poteva derogare. Mentre noi nipoti eravamo addetti alla bassa manovalanza (caricare i pomodori da bollire, passare la salsa etc.), il nonno era specialmente incaricato di tappare le bottiglie, operazione che avveniva inchiodando, con delicate martellate, un tappo mediante un attrezzo cilindrico, naturalmente in legno, realizzato in fabbrica, con il quale il sughero era costretto a infilarsi a forza nel collo della bottiglia. Un nodo doppio in spago impediva al tappo di lasciare la sua sede. L'operazione della bollitura poi, dalla quale dipendeva l'integra conservazione per più mesi del sudato frutto del lavoro, era sorvegliata per tutta la notte dalla nonna e dal cognato Sabino (quello che non volle mai sposarsi). Le bottiglie, sapientemente disposte all'interno di grossi fusti in metallo colmi d'acqua, separate tra loro da sacchi di iuta, restavano sul fuoco, continuamente alimentato, per ore ed ore, disposte dinanzi casa, su quello che oggi è un pezzo della trafficatissima Via Circumvallazione, a poca distanza da Rampa S. Maria delle Grazie. Se passavano trenta macchine, era un'eccezione. Di tanto in tanto una bottiglia saltava: o scoppiava, o perdeva il tappo, in ogni caso era oggetto di rimbrotti tra i due fratelli (Olindo e Sabino) sulla mancata capacità di serrare adeguatamente il tappo con lo spago.

Gli anni '80 hanno visto purtroppo sfumare il sogno di una realtà industriale che avrebbe potuto avere ben altri sviluppi.

I motivi sono stati molti. Il mercato chiedeva sforzi economici insopportabili, l'alluminio e le altre materie, plastica su tutti, entravano prepotentemente in gioco. La impossibilità di standardizzare le misure e ridurre i costi di produzione provocò una prima crisi. Il terremoto diede il colpo di grazia. La ditta si risollevò per poco con i prefabbricati leggeri che, nonostante tutto, sono ancora in uso in diverse parti di Avellino e Provincia, segno di buona progettazione e costruzione, ma alla fine dovette arrendersi. Molti operai lasciarono il cuore in fabbrica, restando comunque legati a questa bella pagina dell'imprenditoria in Irpinia.